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Genius Loci (Subsp. Oreiade)
La montagna come hot spot per un recupero simbolico, paesaggistico ed ecologico della Wilderness
Un archetipo comune a tutte le culture ha visto la montagna come il simbolo del sacro e del trascendente, il paradigma dell'elevazione spirituale, il contorno naturalistico della catarsi, il luogo delle rivelazioni salvifiche ove gli eletti ricevono l'illuminazione a mezzo della separazione dal consorzio civile. Qua, a metà tra cielo e crosta terrestre, i profeti hanno fondato il giudaismo, l'islamismo, il cristianesimo, sulle cime ha dimorato il pantheon ellenico. Analogamente accade in molte culture primitive «la montagna sacra sovrasta la vita della gente di Hombori nel Mali e li guarda fissi ed essi sentono il peso dello sguardo della divinità» (Turri). La sola apparizione delle Alpi dalle nebbie che per mesi ottundevano la vista dalla pianura induceva il pellegrinaggio verso la montagna, luogo della rivelazione divina. «Quando la montagna si mostrava, il fenomeno veniva collegato alla rinascita stagionale, alla piena dei fiumi, al risveglio della campagna al miracolo di una natura soggetta al disegno divino. I pellegrini medievali si recavano ai santuari di montagna, così come facevano i Celti e come fanno i pellegrini induisti ai santuari Himalayani». (Turri). Sui monti di tutto il mondo la divinità scende in terra e la ierofania santifica lo spazio montano: «il luogo si trasforma così in una fonte inesauribile di forza e di sacralità, che concede all’uomo, all’unica condizione di penetrarvi, la partecipazione a quella forza e la comunione con quella sacralità». Per millenni la montagna è stata sede spaventosa delle forze delle natura e del divino concessa solo agli eletti. In epoca classica per la prima volta l'uomo si avvicina ad essa (in “De Architettura” Vitruvio, cita la montagna come topos dal quale si origina l'architettura, in quanto “luogo benevolo” che offre rifugio all'uomo) poi l'umanità ne riprende le distanze per altri secoli. Si dovrà attendere l'ascesa di Petrarca al Mont Ventoux per intravedere un primo riavvicinamento dell'uomo all'altura. Nella curiosità del poeta per la scoperta, nella volontà di esperire il godimento della bellezza dello spettacolo naturale, molti autori individuano la nascita del senso moderno del paesaggio. La montagna, che sino ad allora rappresentava un fenomeno naturale, con Petrarca viene scoperta e trasformata dall'uomo divenendo artificio e paesaggio senza che una pietra venisse mossa. Come affermato da Wab Coolidge “Se una cima è opera della natura, un passo alpino è opera dell’uomo”. «Petrarca sente il distacco della propria cultura dalla natura e la contempla esteticamente. La visione di Petrarca trasforma la natura in paesaggio e anticipa la concezione ottocentesca e moderna di bellezza e di sublime» Dopo di lui, la montagna cadrà di nuovo nell'oblio e, come afferma Charles Durier «malgrado essa fosse l'asse attorno a cui ha ruotato […] la civiltà europea […] per venti secoli non uno storico, né un viaggiatore, né uno scienziato, né un poeta la nomina o almeno vi fa allusione […] Come mai è stata alla fine notata? Cos'è accaduto? Se sicuramente non è stata la montagna a muoversi, allora sarà lo spirito umano che si è messo in movimento per andare verso di essa». Per comprendere quanto affermato da Durier basti pensare che il Monte Bianco, che è poi divenuto il teatro della nascita del senso del sublime, fino a prima del Settecento era chiamato “Mount Maudit”. Con la grande stagione iniziale dell’estetica filosofica settecentesca, col desiderio di conoscere gli aspetti disumani e selvaggi della natura non ancora addomesticati alla civiltà, la montagna diviene la grande protagonista del moderno sentimento del paesaggio. La montagna viene esplorata in simultanea: dalla letteratura, dall'arte e dalla scienza. Per prima è la sensibilità degli scrittori romantici quali Foscolo, Shelley, Tieck, Rousseau e Goethe, a scoprire nella natura selvaggia dei monti un luogo d’ispirazione ed a forgiare un diverso point de vue su di essa. In montagna vive una dimensione di vita incorrotta che solo nella natura vergine dalle alterazioni umane si può esprimere. La montagna diviene il luogo d'elezione in cui proiettare le proprie sensazioni e i propri stati d’animo, teatro naturale in cui esprimere la soggettività incondizionata dalle sovrastrutture psicologiche che la società impone all'individuo. La cultura occidentale guarda ora le montagne iscrivendole in un sistema di rappresentazioni che le correla alla soggettività, al sentire del singolo. «Il paesaggio montano svolge una funzione estetica precedentemente inimmaginabile che non dà più voce alla sacralità ed alla fascinazione reverenziale del divino, ma all’azione ed all’emozione di un protagonista. (…) La soggettività romantica umanizza definitivamente la montagna». (L. Bonesio) Parallelamente si afferma una sorta di pittura di genere (si ricordano: Il ghiacciaio di Lauteraar del 1776, il Viandante sul mare di nebbia del 1818) che veicolerà immagini ravvicinate della montagna, sino ad allora sconosciute ai più. Si evince pertanto come la montagna, intesa come luogo del sublime, sia quindi un'invenzione, un’operazione immaginale, un topos letterario, una produzione estetica. La definitiva annessione culturale del paesaggio montano si compirà con le spedizioni di Horace Bénédict de Saussure, che condurranno a scrutare e misurare la montagna con il mezzo scientifico sperimentale, assoggettandola alla calcolabilità in una fase di analisi che prelude già agli intenti del suo futuro sfruttamento. La via alla montagna, aperta dall'interesse esplorativo che verso di essa mostrano la letteratura, le arti, la filosofia e la scienza che descrivono all'unisono le alture come irresistibili, imponenti, sublimi, affascinanti, prepara quindi la temperie culturale ed ideologica (rafforzata delle coeve speculazioni sul titanismo e sul superominismo) su cui si sviluppa il fenomeno del consumo di massa della natura. Si assiste così alla nascita dell’alpinismo moderno, della frequentazione sportiva dell’altura, del paesaggio montano come grande attrattore del turismo vacanziero di massa e scenario di svago e teatro di un eroismo solitario. Non si guarda più alla montagna per comprenderne il nomos, non si guarda alla montagna affatto e, se anche la si guarda, pur non la si vede perché è divenuta la scenografia in dissolvenza dietro al palcoscenico delle umane avventure narcisistiche. «Il turismo non farà che usare, ridotte a slogan, le parole dell’estetica del pittoresco e del sublime, degradando a no la natura selvaggia e retorizzando, spesso fino al caricaturale, le virtù salutari del clima». (L. Bonesio) Con la codificazione estetica delle montagne o, per meglio dire col consumo estetico, comincia una deflagrazione della simbologia legata all’altura che viene deprivata di quell’aura di leggendaria paura. Venuto meno il simbolo del sacro e del luogo assoggettato al terribile dominio della natura, il valore estetico si converte in prezzo, lo sguardo celebrativo verso la gloria della montagna diviene il momento primo della sua aggressione ed il catalizzatore del suo stravolgimento. La montagna viene inscritta nella logica globale, e quindi connessa agli insediamenti di valle. Vi si aprono gallerie, strade, infrastrutture energetiche, impianti di risalita, hotel. Sui suoi fianchi e nelle valli preme l'assedio dell'industria. Viene sconvolto un equilibrio millenario, di tipo prestorico. «La montagna non si contrappone più come prima alla pianura ed alla città, per antonomasia cangiante ed in rapido mutamento; l’ibridazione dei luoghi, il meticciato e la commistione, il trasporto d’elementi da un ambiente all’altro, la ricostruzione della vita urbana su alti rilievi per ottenere una maggiore fruibilità turistica, snaturano le località montane». Adesso che tutte le vette sono state conquistate, che sia accaduto col significativo gesto di piantarvi una bandiera o con quello più distruttivo di un insediamento forzato, vi è il rischio che questo ultimo volto della natura perda il residuo del suo significato simbolico. Vi è il concreto rischio di un appiattimento delle montagne, di una loro omologazione al resto. La necessità di tutelare la singolarità della montagna, ed il rapporto speciale e specifico che ogni popolazione su di lei insediata intrattiene con le radici rocciose della propria civiltà assumono ancor più valore alla luce della nozione urbanistica ed antropologica di non-luogo (Marc Augé). Ma se è vero che il degrado materiale ed estetico dell'altura e della natura in generale deriva dalla perdita di valore simbolico ricreando con vari espedienti tale valore, possono essere intraviste nuove prospettive di valorizzazione. E se è vero che non si può ricostruire un pantheon artificiale che dimori sulle alture, si può utilizzare e potenziare la valenza simbolica dell'altura per installare qua una sorta di area protetta, un SIC, un hot spot di ricolonizzazione da parte della mitologica specie delle Oreiadi. E' ancora possibile evitare l'esilio definitivo del genius loci che dimora nella loro assoluta singolarità di eventi tettonici, geologici, erosivi e vegetazionali imprevedibili, casuali e irripetibili che ne hanno costruito le specifiche anarchitetture. Salvaguardando il carattere selvatico, intangibile, impervio ed unico di ogni montagna mediante zone di rispetto, sistemi stradali di connessione minimi ed indispensabili, morfologicamente e paesaggisticamente integrati è forse possibile rieducare ad una nuova estetica ed a nuovi usi meno consumistici ed indiscriminati. Utilizzando l'Oreiade come “specie ombrello” e la montagna come habitat da salvaguardare ecologicamente e soprattutto simbolicamente, si può sperare in un virtuoso feedback, in una ricaduta positiva sugli ambienti di natura in generale. Quella della Wilderness è stata definita da vari autori come la questione dell’intera civiltà terrestre nell’epoca della tarda modernità. La necessità di salvaguardare la fisionomia singolare dei luoghi interessa da vicino architetti e paesaggisti i quali devono essere educati a non considerare gli aspetti indomiti della natura come degli ostacoli alla progettualità umana poiché, ignorando il dato ambientale, si incorre nell'identica ripetitività dei luoghi. Come sostiene Turri il paesaggio è fatto di grandi eventi geologici e piccoli eventi umani, ed i primi sono l'inalienabile supporto, generatore dell'identità dei secondi. Quando il genius loci è messo a tacere, l'identità del luogo si perde e senza di essa «ogni costruzione umana è destinata a somigliare a una torre di Babele cui venga meno il fondamento». (L. Bonesio) Decaduta la sacralità, superato storicamente il sublime, finite le cime disponibili per le imprese di conquista sportiva, e compresa la stupidità del tentativo di trasformare le pendici montuose in succursali delle periferie urbane, essendo, come sostiene J. Arthus Bertrand, «troppo tardi per essere pessimisti» in quest'epoca di disastri ecologici e devastazioni ambientali non si può far altro che guardare alla montagna come tempio della selvatichezza, e ricollocarla in una dimensione elevata e distante che si confà all' «emblema dello spazio elevato e sacro». Salendo sulle alture e penetrando negli spazi di natura con spirito nuovo e partecipativo si potrà godere di un punto vista dal quale guardare il mondo ed i suoi paesaggi in una nuova prospettiva. Solo da questo nuovo “punto anti-panoramico” sarà possibile praticare il riorientamento necessario alla salvaguardia del valore intrinseco della montagna e, più in generale, di questo mondo. Per fare ciò serve una scienza olistica e totale dell'ambiente, che richiede la partecipazione di ecologi, biologi, geologi, economisti, filosofi, storici, paesaggisti ed architetti. In questo intento di esortazione riflessiva consta il senso di una mostra di paesaggi naturali, prevalentemente montani, presso una facoltà d'Architettura.
Serena Savelli
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