Isabella Pezzini
Introduzione a Barthes
Fabio Di Carlo
Il lavoro di Isabella Pezzini Introduzione a Roland Barthes ripercorre le evoluzioni del pensiero e dell’opera di uno dei maggiori intellettuali del Novecento. Pur se in una prospettiva transdisciplinare e indiretta, credo che questo testo possa rappresentare un contributo utile anche nell’ambito del ragionamento critico sul progetto di architettura e di paesaggio, ovvero aiutarci nella ripresa di alcune riflessioni e strumentazioni nella ricerca sul senso più profondo di alcuni passaggi costitutivi del lavoro sul progetto.
L’autrice è una semiotica che con questo volume ha ripreso i ragionamenti su un autore fondativo della cultura semiologica che aveva già indagato nel tempo, e che qui affronta in una dimensione più ampia e complessiva (1). In realtà con Introduzione a Barthes, ha voluto ridisegnare a tutto tondo le evoluzioni del pensiero di quest’autore, evidenziandone accuratamente la dialettica interna tra momenti di discontinuità e mutamento, rispetto agli elementi di permanenza e continuità. Una lettura che esprime al contempo molto affetto per Barthes assieme a molto rispetto, rinunciando a tracciare un ritratto definitivo e restituendoci invece un profilo del tutto aperto.
Rispetto agli aspetti transdisciplinari di questo libro, è utile ricordare che l’autrice in realtà ama frequentare spesso territori molto diversi, anche vicini a quelli del progetto, sia rispetto ai risvolti di tendenze recenti nella trasformazione degli usi e valori dell’ambiente umano, sia come testimonianza di momenti di ricerca svolti in contiguità con architetti, paesaggisti e pianificatori (2). Le dichiarazioni di vicinanza, quasi di coincidenza, tra gli strumenti e le metodiche di lettura e analisi dello spazio urbano rispetto a quelle del lavoro sul testo - la città e lo spazio come testo -, sono in lei l’evoluzione in direzione più operativa dell’assunto già espresso nel 1983 da Umberto Eco, che attraverso le riflessioni sulla ‘semiotica dello spazio’, prende un corpo significativo nel suo lavoro e coinvolge direttamente il mondo del progetto a delle riflessioni in questa direzione.
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1. Roland Barthes durante una lezione |
La mia lettura di questo libro e di Barthes ovviamente non può che essere compiuta con gli strumenti dall’architetto, anzi del paesaggista, che ricerca elementi di vicinanza e spunti di riflessione diversi attraverso altre discipline. In realtà ho sempre creduto che un ragionamento sulla comunicazione attraverso il sistema dei segni e degli elementi dello spazio, dell’habitat, del paesaggio e dell’architettura, dovesse essere maggiormente approfondito nell’ambito della ricerca progettuale, proprio a partire anche dai ragionamenti di U. Eco, ma che ritengo non abbia avuto purtroppo un grande riscontro nella pratica della critica e della progettazione architettonica.
Linguaggi - architettura
In architettura il termine ‘linguaggio’ è usato principalmente per far riferimento sia al lavoro individuale di un progettista e alla riconoscibilità dei sui tratti, sia per identificare alcune tendenze del progetto che con i loro segni hanno caratterizzato periodi storici attraverso la formazione di ‘stili’.
Da un lato quindi un linguaggio può rappresentare un sistema di segni che coincidono con un bagaglio sedimentato di elementi figurativi che rimandano a un architetto specifico, identificando chiaramente un progettista e rappresentandone ‘la firma’ e ciò che lo rende ben riconoscibile rispetto agli altri. Fenomeno questo che è ben evidente in tutta la storia dell’architettura, non senza aspetti paradossali, in particolare nell’ultimo secolo e nei recenti decenni.
Dall’altro il tema delle evoluzioni del linguaggio nei secoli è in genere stato identificato con il complesso di segni e di elementi visibili e comunicativi dell’organismo architettonico. Segni e linguaggi evidenti in particolare attraverso il lavoro di modulazione e modellazione delle facciate degli edifici – la comunicazione verso l’esterno. Solo in alcune fasi storiche il lavoro sul linguaggio è coinciso anche con quello sull’articolazione degli spazi e con il loro allestimento interno, per arrivare fino agli arredi.
Il ragionamento sul linguaggio architettonico per lunghi tratti ha coinciso quindi con un dato sovrastrutturale, perfettamente modificabile o sostituibile per essere aggiornato al pensiero filosofico, ai gusti nuovi e alle sperimentazioni di stile. Solo in alcuni passaggi questi ragionamenti hanno riguardato lo spazio della città nel suo complesso che, nella maggior parte dei casi, è stata sommatoria di elementi comunicativi, piuttosto che un palinsesto nel quale rappresentare in una dimensione più estesa e complessa le forme di potere e gestione dello spazio collettivo.
Con le avanguardie del Novecento si è eliminato l’ornato e si scoperta la struttura. Il conferimento alla struttura e alla sua leggibilità del dato di modernità eliminava ogni ‘debolezza decorativa’ e assieme alla dichiarazione di principi di funzionalità e razionalità, si sostituiva nella comunicazione alla monumentalità tradizionale, e spostava il ragionamento su un modello comunicativo ed interpretativo diverso, dove la struttura diviene visibile e la facciata racconta dell’organizzazione interna, individuale, comunitaria, sociale.
Soltanto nella fase di superamento della modernità l’architettura ha riscoperto il segno sovrastrutturale come possibilità comunicativa. Che sia il pastiche del postmodernismo storicista o quello del lavoro sulla decostruzione, oppure quello dell’integrazione delle nuove tecnologie, sembra che il progetto di architettura abbia ormai superato l’imperativo assoluto dell’astrazione autoreferenziale e del silenzio comunicativo come dato imprescindibile.
Potrei aggiungere che negli ultimi due decenni abbiamo forse assistito a un’inversione di tendenza, di ricomparsa di sistemi di comunicazione come componenti dell’edificio e dello spazio urbano. Una più esplicitamente comunicativa che attraverso le nuove tecnologie trasforma lo spazio in un evidente grande testo informativo; l’altra più rivolta in direzione opposta, con un approfondimento del lavoro sul dettaglio materiale, sulle tecnologie realizzative, dove lo spessore qualitativo diviene anche comunicativo e si offre come nuova forma dell’ornato architettonico (e paesaggistico).
Linguaggi - paesaggi
Il libro di Isabella Pezzini si articola in sette capitoli che ripercorrono l’excursus produttivo di Barthes, assieme alla mutazione dei suoi interessi specifici, ma soprattutto delle sue relazioni con i temi delle trasformazioni sociali. Potrei dire che sembra che la sua produzione e il suo pensiero di sono stati letti quasi come un paesaggio, sedimentato ma turbolento e instabile, di cui Pezzini ha analizzato le mutazioni, contemporaneamente nel breve periodo, come stagioni che si alternano, e nelle dinamiche evolutive e progressive dei tempi lunghi – le stratificazioni del paesaggio e la sua immagine visibile, finale ma mutevole. Di più, sono quasi paesaggi leggibili attraverso processi di feedback o di letture temporali incrociate, in cui lo sviluppo lineare del pensiero si accompagna ad una lettura di ambiti temporali più ampi.
Attraversare un testo è come attraversare un paesaggio: tutti i minuti incidenti che si producono durante una singola passeggiata – dati dall’irriducibile singolarità dell’arrangiamento di luci, colori, vegetazione e clima in quel preciso momento – fondano la sua differenza, irriproducibile in quanto tale (p. 95).
La titolazione dei capitoli è ben scandita dagli spazi temporali, associando opere principali e caratteri preminenti di ognuna di queste fasi. Il capitolo primo - 1942-1954: Il desiderio di scrivere - è centrato sul fondamento delle nuove forme di scrittura in relazione al ruolo, anche politico, dell’intellettuale nella società borghese. Il secondo - 1955-1961: La mitologia sociale - attraverso i tre argomenti del mito, del teatro e del cinema ricostruisce la tensione di Barthes verso la demistificazione dei caratteri della società borghese. Nel terzo - 1962-1967 I: Lo scandalo della nuova critica - introduce all’epopea del pensiero strutturalista e alla nascita della critica al verosimile e al mito della soggettività, seguito dal quarto - 1962-1967 II: Uno strutturalista felice - sul pieno sviluppo del portato strutturalista. Il capitolo quinto - 1968-1971: Utopie e scritture dell’eccesso - racconta di una scrittura che alterna diverse forme del sublime, dall’eccesso erotico di alcuni classici e quello della delizia della cultura giapponese. Il sesto - 1972-1977 - Il piacere e il romanzo dell’io -. Infine il settimo - 1977-1980: Verso il romanzesco - sulle ultime fasi del suo lavoro.
Barthes, l'architettura e l'ambiguità del grado zero
Dal libro risulta evidente che Barthes ha raramente affrontato in forma esplicita di architettura. Al contrario, in diverse occasioni, il mondo dell’architettura si è spesso riferito a lui in via diretta o indiretta. Come ci evidenzia indirettamente l’autrice, l’interesse di Barthes per la città e l’architettura si sposta ovviamente su piani diversi rispetto a quelli usuali degli architetti. È il caso dei ragionamenti sulla Torre Eiffel (1964), dispositivo di paesaggio urbano, nata per essere un landmark, da vedere, per trasformarsi in dispositivo per la visione (p. 55). Oppure il caso di alcuni testi destinati specificamente alla città, come “Sémiologie et urbanisme” (L‘Architecture d’aujour’hui, 1971) in cui Barthes individua, con grande anticipazione, lo ‘schizzo’ di una semiotica della città come lavoro inter o transdisciplinare, che coinvolga un’ampia gamma di specificità disciplinari, evidenziando alcune figure, come quelle di Kevin Linch e di Jacques Derrida, come fondative per questo approccio.
In realtà Barthes ha avuto almeno un architetto tra i suoi seguaci più vicini. Christian Hauvette (3), amico e assistente per un lungo periodo presso l’Ecole Pratique des Hautes Études, progettista di fama in ambito francese, “che ha rinnovato l'architettura europea facendone un ‘gioco del linguaggio’ secondo la filosofia di Roland Barthes […] e' stato uno degli architetti più talentuosi della sua generazione” secondo il ministro della Cultura, Frederic Mitterrand” (4). Hauvette dichiarava di aver praticato il progetto di architettura “come gioco linguistico per determinare meglio i meccanismi di controllo del processo significante […] Così il disegno del progetto, la progettazione, non è un'attività artistica marginale, ma un motore essenziale del funzionamento sociale, un motore per mettere in rapporto la forma e la società attraverso la conoscenza, attraverso la azione” (5).
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2. Christian Hauvette |
3. Edificio residenziale a Chantepie |
Rispetto al ruolo e all’incidenza dei ragionamenti di Barthes nella cultura architettonica europea, e in particolare italiana, molto famoso è il caso di Bruno Zevi in uno dei suoi ultimissimi scritti, il discorso introduttivo al congresso di Modena del 19 settembre 1997, ‘Paesaggistica e linguaggio, grado zero dell’architettura’. Un pezzo molto noto, in cui Zevi parafrasa in diverse occasioni il ricorso al ‘grado zero’ come mezzo di lettura dei passaggi più significativi della storia di alcuni architetti e dell’architettura tutta. Le modificazioni radicali del linguaggio di grandi autori, così come nel caso di Le Corbusier con la Cappella di Ronchamp, erano interpretate da Zevi appunto come fasi di azzeramento di un linguaggio precedente, verso la fondazione di un nuovo abaco espressivo. Il ‘grado zero’ come reset e come ‘anti-codice’, come rifiuto anti accademico.
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4. Un ritratto di Bruno Zevi |
5. Le Corbusier, pianta della Cappella di Ronchamp |
Nel discorso di Zevi c’è ovviamente molto di più. Ad esempio la preveggenza del valore paradigmatico che il progetto di paesaggio ha raggiunto nei nostri giorni. Ma in realtà credo che nella tensione di esplicitare una posizione dichiaratamente anti postmodernista, ricorrendo al ‘grado zero’ come superamento dei linguaggi pregressi, si crei forse anche una distorsione del ragionamento barthesiano. Ovvero credo che privilegiando gli aspetti di innovazione linguistica - il rigetto di linguaggi verso altri linguaggi - Zevi trasformi il ragionamento sul ‘grado zero’ ponendo in secondo piano l’obiettivo, che per Barthes passa attraverso la formazione della ‘tabula rasa’, come corollario indispensabile per il processo di formazione di un nuovo progetto di letteratura.
[…] Si tratta di sorpassare la Letteratura [con la L maiuscola] affidandosi ad una sorta di lingua di base […] Se la scrittura è veramente neutra, allora la Letteratura è vinta». Si può aggiungere: «Se la scrittura è veramente neutra, allora l’architettura del potere, classica, accademica, postmoderna, è vinta».
A posteriori potremmo leggere anche qualche parabola ad alcune figure di architetti contemporanei cui Zevi fa riferimento, che certo non avrebbero mancato di deluderlo, quali strenui ricercatori di una propria riconoscibilità e di una nuova ‘accademia della deroga’.
Al contrario nell’interpretazione della Pezzini, si evidenzia invece bene che la questione del ‘grado zero’ si ponga in forma più complessa. Che in Barthes, oltre alla ricerca di cambiamento di strumenti e segni, verso linguaggi nuovi, prende forza la necessità di una radicale sostituzione o revisione del palinsesto - nel senso più proprio di supporto riscrivibile - verso la cosiddetta ‘pagina bianca’, per poter “perseguire una scrittura amodale, innocente, una specie di lingua di base, lontana tanto dai linguaggi parlati quanto da quello letterario propriamente detto” (p. 17).
E questo tema della ‘pagina bianca’ riporta contemporaneamente ad alcuni aspetti della produzione teorica francese in architettura. Penso al suo amico Hauvette, ma in particolare a Jean Nouvel, che preconizzava la più grande semplificazione dello spazio architettonico per il contenimento della massima complessità delle trasformazioni sociali. Ma ancor più mi riporta verso l’approccio di una corrente di pensiero della cultura architettonica giapponese, un filone che parte con Fumihiko Maki, passando attraverso Toyo Ito e Kengo Kuma e giunge alla Kazuyo Sejima. Se in Maki e Kuma ritorna quel ragionamento sul dettaglio architettonico che si fa comunicazione, in Ito e nella Sejima il discorso della ‘pagina bianca’ e ancor più del ‘grado zero’ sono più forti ed evidenti.
Non mi riferisco all’uso prevalente del bianco, nella rappresentazione come nelle realizzazioni; né al radicale minimalismo del loro approccio, quanto proprio all’annullamento metodico di qualsiasi relazione consolidata tra gli elementi di base dell’edificio.
Nella Mediateca del Sendai, Toyo Ito frantuma la struttura portante e le relazioni strutturali ordinarie in una moltiplicazione di segni, in una foresta che viaggia in forma diversa in ogni piano, componendo relazioni sempre diverse e lasciando massima libertà alla formazione e trasformazione degli spazi attraverso elementi sovrastrutturali. Lo spazio diviene una sorta di paesaggio di segni, in cui la gerarchia di struttura-sovrastruttura lascia il passo a relazioni più complesse: veramente una scrittura bianca che acquista significato solo attraverso sovrapposizioni diverse di strati di segni e significati.
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Mediateca di Sendai, Toyo Ito, 1995 e seguenti
6, 7. schizzi di studio autografi; 8. modello di studio; 9. veduta della realizzazione; 10. immagine della bibliote-ca dopo un forte evento tellurico. Paradossalmente anche dopo la scossa, lo spazio della biblioteca sembra esser tornato ad essere una ‘pagina bianca’, ben solida e disponibile a una ricomposizione tutta nuova di segni elementari. |
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Segni, disegni e processi
Un altro passaggio interessante del libro riguarda i legami tra le osservazioni di Barthes sul Giappone e le sue attività grafico-pittoriche. Il paragrafo Segni, cifre, lettere, lega le sue riflessioni su alcune manifestazioni della cultura quotidiana giapponese a quella produzione grafica che Barthes praticò con assiduità, per un lungo periodo ma in forma del tutto personale. Su questa sono state realizzate almeno due mostre a Roma. La prima nel 1981, con un catalogo con gli scritti di Carmine Benincasa, Giulio Carlo Argan e François Wahl, la seconda, Intermezzo, nel 2004, curata da Achille Bonito Oliva (6). L’autrice sottolinea giustamente la continuità e contiguità di ricerca tra questi due aspetti:
È probabilmente l’esperienza giapponese che incoraggia Barthes nell’espressione visiva: ciò che lo aveva colpito nei segni di quel paese era proprio la continuità tra segno grafico e segno alfabetico, testo-disegno e testo-scrittura. (p. 104)
Le riflessioni sulla possibilità dei sistemi di segni elementari, dei frammenti, di costituire un piano di comunicazione forte, di formare dei ‘paesaggi’ al contempo di innovazione e memoria, tra psicoanalisi e lettura oggettiva del reale, attraversarono tutta una fase della cultura, a partire dagli anni Settanta, con delle vicinanze che trovo interessanti.
È quasi facile accostare semplicemente le pagine bianche affollate di segni elementari di Barthes all’abaco delle Folies di Bernard Tschumi per il Parc de la Villette, ai disegni di Keit Haring, come agli elenchi del quotidiano di Georges Perec o di alcuni passaggi di Italo Calvino, in Palomar come nei gruppi di segni significanti di molte Città invisibili. Sistemi di segni peraltro sono quelli dell’espressione ipertestuale di Roland Barthes par Roland Barthes, in cui il ritratto si trasforma nella “decostruzione del soggetto” (p. 123) ovvero nella sua rilettura attraverso composizione e scomposizione di strati diversi nelle tipologie di segni e di significati.
Dalle riflessioni di Barthes sul Giappone emergono bene in questo libro alcune suggestioni importanti per il progetto. L’inseparabilità dell’accoppiata spazio-tempo nella concezione e percezione dello spazio, superata dal concetto di “intervallo” (p. 104), che ha molti riscontri sia sul lavoro in architettura, che su quelli della città e del paesaggio.
Poi emerge il ruolo di complementarietà tra forme dell’espressione artistica, fino ad arrivare a quello dell’azione produttiva e performativa all’interno della comunicazione del valore del prodotto – la teatralità dei cuochi giapponesi come plus valore aggiunto al cibo servito – che forse può essere avvicinato al meccanismo con cui oggi attribuiamo valore aggiunto a quei processi progettuali le cui fasi produttive si intersecano sia di saperi extradisciplinari, sia di informazioni e suggestioni provenienti da fonti molto diverse, quelle sociali per prime.
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11 e 12. le copertine dei cataloghi delle mostre dei disegni di Barthes (Roma, 1981 e 2004); 13. Abaco delle Folies del Parc de la Villette; 14. una grafica di Roland Barthes del 1972; 15. Keith Haring in una performance. |
Questo libro è in realtà un eccellente strumento di navigazione con il quale attraversare il pensiero di Barthes insieme a molte delle evoluzioni della seconda metà del secolo scorso. Un mondo che se da un lato ricostruiva e cercava di sedare il dolore, anche con un lavoro di metodo, attento e oculato, nel ricercare una definizione di senso del domani, al contempo cercava di dar forma a prospettive: costruire un’utopia di mondo migliore, con una spinta ancora non del tutto annichilita dal radicarsi del disincanto postmoderno e dal ripetersi ciclico dei periodi di crisi. Ci parla di un periodo in cui esistevano comunità intellettuali forti, contraddittorie ma coese contro uno stato delle cose. E in questo Parigi, pur se non sola, sembra disegnarsi come uno dei centri di resistenza maggiori in questo senso. Una fase storica dove il pensiero appariva essere al servizio della comprensione dei fenomeni, con una tensione positiva, di diversità etica e morale.
Voglio terminare sostenendo ancora l’importanza di questo testo anche noi progettisti, come viatico per il ritrovamento di passaggi di senso del nostro operare, talvolta obliati dalla consuetudine o dalle contingenze. Il percorso di Barthes e le sue tappe di riflessione sintetizzano bene un percorso possibile: ricercare nuovamente il senso, anche il più ‘alto’ del fare progetto, assieme alla coniugazione ‘ingenua’ di sistemi elementari – di segni, di materie, di tracce e significati – e al tentativo di perseguire forme di comunicazione del progetto efficaci ed attuali.
Concludo quasi con un’esemplificazione, parlando di un giardino, che ritengo quasi un iper-giardino. Un giardino temporaneo del 2011, che quindi non esiste più. Un hortus conclusus, realizzato da Peter Zumthor e Piet Oudolf quale allestimento della Serpentine Gallery nei Kensington Gardens di Londra, che ritengo possa esplicitare bene i nostri ragionamenti.
L’opera consiste di due oggetti significanti molto semplici: un doppio muro opaco, nero, elementare, che separa dall’esterno e ci prepara attraverso una deambulazione alla sorpresa della luce interna e del giardino, con un impatto forte, dato anche dalla ricchezza botanica e dall’esplosione cromatica delle sue componenti, incluse le fioriture ormai secche. Nella descrizione Zumthor pone l’accento sull’idea di “giardino dentro il giardino”, sulla separazione tra qualità spaziali, facendo anche riferimento ai giardini alpini ritagliati nei paesaggi agrari. Oudolf invece trova quella qualità spaziale, neutra, che gli permette di sperimentare in pieno la sua poetica di giardino iper-naturale, forse in una delle sue massime espressioni.
In realtà credo di non fare una forzatura né leggendolo come un’interpretazione evidente di giardino giapponese, né paragonandolo ai ragionamenti barthesiani, da quelli sul ‘grado zero’ a quelli sul rapporto tra ‘pagina bianca’ e segni elementari. Del giardino giapponese ha tutte le modalità percettive, la visione esclusiva dal margine, sotto una tettoia anulare, in tutto simile ai dispositivi della nokishita e della engawa, letteralmente “spazio sotto la grondaia” e “veranda”, tipici della mediazione interno-esterno della casa tradizionale giapponese (7). Per contro mi sembra che tutto il ‘rito di passaggio’ tra esterno, interno, esterno-interno, appaia proprio come un processo di esperienza di azzeramento, chiarificazione e formazione della ‘tabula rasa’. All’interno il giardino, per il quale potremmo di nuovo evocare alcuni concetti spaziali giapponesi, quali quello di giustapposizione e l’impossibilità di percepire con lo sguardo tutti gli elementi di una composizione (8).
La palette vegetale di erbacee parla di semplicità, spontaneità e, insieme, di ricchezza percettiva di racconto delle processualità naturali, con un impianto progettuale che rimanda in tutto all’idea di organizzazione di un campi di segni.
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20. Una grafica di Roland Barthes |
Note
(1) Isabella Pezzini è professore ordinario di Filosofia-Teoria dei linguaggi alla Sapienza. Tra i suoi lavori relativi a Barthes ricordiamo: P. Fabbri, I. Pezzini, Mitologie di Roland Barthes: i testi e gli atti (Convegno di Reggio Emilia, 13-14 Aprile 1984), Parma, ed. Pratiche, 1986; I. Pezzini, “Barthes e il romanzesco: il seminario Proust e la fotografia”, in E/C - 02/08/2005
(2) Nella sua produzione trovano spazio diverse pubblicazioni orientate verso la lettura di fenomeni architettonici e urbani: I. Pezzini, N. Savarese, (a cura di), Spazio pubblico fra semiotica e progetto. Atti workshop seconda edizione della Biennale dello Spazio Pubblico 2013, Roma, INU Edizioni, 2014; I. Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Bari, Laterza, 2011; I. Pezzini (a cura di), Roma: luoghi del consumo, consumo dei luoghi. Ara Pacis, Auditorium, Esquilino e altro. Analisi semiotiche e sociolinguistiche, Roma, Nuova Cultura, 2009; G. Marrone, I. Pezzini, Senso e Metropoli. Per una semiotica posturbana, Roma, Meltemi, 2007.
(3) 1944-2011, Christian Hauvette è stato Gran Prix National de l’Architecture nel 1991 e insignito del titolo di Ufficiale de l’Ordre des Arts ed des Lettres.
(4) Comunicato Adnkronos, 30 aprile 2011.
(5) Dall’intervista di Dominique Poiret pubblicata su Liberation, il 25 maggio 2011, http://next.liberation.fr/design/2011/05/05/christian-hauvette-l-architecture-est-une-culture-en-lutte_733631.
(6) Benincasa, C. (a cura di) 1, Roland Barthes, Carte e Segni, Milano, Electa, 1981; Bonito Oliva, A. (a cura di). Roland Barthes. Intermezzo, Milano, Skira, 2004.
(7) Per un approfondimento si rimanda all’interessantissino articolo di Taruyuki Monnai, “Un glossario dei concetti spaziali”, in Casabella, n. 608\609, 1994, pp. 14-19.
(8) hitaisho, asimmetria e giustapposizione, e miegakure, l’impossibilità di percepire con lo sguardo tutti gli elementi di una composizione, in Taruyuki Monnai, op. cit.
Autore |
Isabella Pezzini |
Titolo |
Introduzione a Barthes |
Editore |
Laterza |
Città |
Roma e Bari |
Anno |
2014 |
Pagine |
194 |
Prezzo |
€ 13,00 |
ISBN |
978-88-581-1231-1 |
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
DI CARLO Fabio |
2015-12-09 |
n. 99 Dicembre 2015 |
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