A cosa servono, nei giorni amari dell’oggi, tante pantomime, contromarce, rivalità, tensioni: sforzi spesi per contrastarsi l’un l’altro e destinati ad annullarsi a vicenda? Per la disperazione delle persone oneste, che sono una moltitudine. Politica, sterilità della politica! La politica vera è l’esecuzione della pianta di un edificio. Dov’è la pianta – la pianta reale e umana, quella capace di tradurre in pratica le gioie dei nostri cuori e dei nostri spiriti, di realizzare quella forza vitale che contiene tutti gli elementi che danno la felicità? Le Corbusier, L’abitazione, speranza della civiltà macchinista, 1938
Quando si avvia un percorso di ricerca sul tema dello spazio dell’abitare contemporaneo non sorprende ormai più di tanto la difficoltà di reperire casi di studio rilevanti all’interno del contesto della produzione architettonica che si realizza in Italia. Rarissimi sono quegli esempi che si segnalano per un carattere innovativo e sperimentale, tanto sotto il profilo tipologico quanto sotto quello tecnico-costruttivo. Pare giunto il momento di proporre alcuni ambiti di riflessione nel merito di questa difficoltà in Italia di realizzare edilizia residenziale di qualità comparabile con quella degli altri paesi europei. Il primo ambito di riflessione è di natura politico-economica. L’Italia è uno dei paesi con la più alta percentuale di case di proprietà per abitante e, nonostante questo, il mercato dell’abitazione è relativamente florido, specie se rapportato con la crisi che in questo stesso settore attraversano gli altri paesi europei e quelli oltre oceano. Il persistere di una domanda ancora significativa non offre alcuno stimolo di fatto al sistema politico e imprenditoriale nella direzione di modificare la natura dell’offerta. Perché sperimentare nuove forme dell’abitare se una prassi consolidata negli ultimi trenta anni incontra ancora le aspettative dell’utenza reale? Appare chiaro come in questa ottica entri in gioco anche l’incapacità degli individui di rappresentarsi in un modello di qualità dello spazio dell’abitare diverso da quello attuale, misurato sulle mutate esigenze di vita e di abitazione prodotte dalla società contemporanea o, ancora, di riconoscere che la qualità dello spazio pubblico e semi-pubblico di pertinenza delle abitazioni sia un fattore in grado di migliorare sensibilmente la condizione abitativa. Quest’ultima considerazione assume maggiore rilievo perché interessa quella “specie di spazi” in grado di generare la qualità urbana che stabilisce, in particolare, la natura del rapporto tra la città consolidata e i nuovi quartieri che sorgono nei territori della nuova espansione, oggi palesemente frammentaria. Quando questi elementi di criticità si sono palesati nel resto dei paesi europei, la sperimentazione è stata supportata dal sistema pubblico nel settore della progettazione e della realizzazione dell’housing sociale. Con una sostanziale differenza: l’edilizia sociale, in quasi tutti i paesi con la rilevante eccezione dell’Italia, è finalizzata alla vendita a un prezzo agevolato piuttosto che alla locazione con un canone agevolato. Una condizione che limita, di fatto, una proficua ricerca della qualità. Questa sperimentazione, a fronte di un’oggettiva elevata qualità diffusa degli interventi realizzati ha messo in risalto un dato estremamente significativo, reso palese dalla pubblicazione della casa editrice spagnola a+t – e riproposto da Il Sole 24 Ore - dal titolo Density Housing Construction & Costs che, nel presentare oltre 30 esempi di architetture residenziali realizzate del mondo (nessuna delle quali in Italia), ha messo in risalto il valore del costo medio di costruzione pari alla metà, nella maggioranza dei casi, e comunque mai superiore, negli esempi più onerosi, di quello medio italiano. Un dato facilmente spiegabile con una forte implementazione, nel mondo, dei processi di costruzione dell’edificio attraverso sistemi di produzione e prefabbricazione in grado di dare vita a edifici di qualità con costi contenuti. In questa chiave di lettura appare altrettanto opportuno rilevare come, peraltro, possa essere fatta risalire alla stagione dei grandi piani di edilizia economica e popolare, dal dopoguerra fino alla fine degli anni ’70, l’ultima riconosciuta produzione di opere di architettura a destinazione residenziale di rilievo in Italia. Molte delle architetture realizzate in quell’arco temporale sono costantemente prese a riferimento e studiate nel resto d’Europa, sia per quanto attiene la sperimentazione tipologica, sia per gli esiti formali raggiunti sia, infine, per la qualità dello spazio urbano che queste realizzazioni hanno generato. Eppure nulla si muove. Da un lato, quasi come un paradossale riflesso per quella fase appena descritta di sperimentazione progettuale, si moltiplicano le prese di posizione politiche nel merito di una serie di interventi di cui la comunità scientifica e culturale testimonia il significato e il valore, mediante proposte di demolizione a fronte di alternative di carattere puramente pittoresco. Dall’altro l’Italia rimane ormai l’unico Paese che, mentre nei quartieri in espansione sembra non preoccuparsi minimamente del rapporto tra gli edifici e gli spazi urbani aperti (strade, viali, piazze, parchi, ecc.), non si rende conto del cambiamento delle esigenze di vita e di abitazione della società contemporanea, tenendo ancora a riferimento una normativa che risale alla fine degli anni ‘70, periodo in cui la condizione sociale e la natura dei nuclei familiari era molto diversa, meno frammentata e diversificata rispetto a quella odierna. In questo panorama appare chiaro come, per gli architetti che operano in Italia, l’unica strada percorribile, per quanto ardua se non addirittura proibitiva al punto tale da portare all’isolamento, sia quella di sforzarsi, all’interno del dedalo di norme e vincoli esistenti, di proporre un lento, graduale, per quanto difficile cambiamento. Sintomatico anche il fatto che le nuove generazioni sempre meno siano direttamente coinvolte nella progettazione di questa tipologia edilizia, come già scritto nelle pagine di questa rivista. Altrettanto sintomatico l’iter cui sono sottoposte le esperienze concorsuali che si propongono l’obiettivo di favorire la sperimentazione in questo territorio della ricerca, anche dopo l’aggiudicazione definitiva. Tralasciando la messe di concorsi irrealizzati, anche quelli che si avviano alla realizzazione si trasformano in vere corse ad ostacoli. Il senso di questa rivista, assai di frequente, ci impone di affidare le speranze nelle pratiche di insegnamento all’interno delle scuole di architettura quale occasione irripetibile per rifondare alla base un sistema che ha perso ogni fondamento etico e ogni spirito di ricerca. Ma tanto vale ribadire questa presa di posizione a fronte di eventi come la soppressione del CABE, organizzazione promotrice, in Inghilterra, della qualità in architettura e nella progettazione urbana, che ha fornito lo spunto per l’editoriale del mese scorso o ancora la totale indifferenza nella quale è passato il Codice di pratica per la progettazione dell’edilizia residenziale pubblica a Roma. Uno strumento, prodotto da questa Facoltà di Architettura e finanziato dalla stessa Amministrazione comunale, deputato alla definizione di criteri per la qualità dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la definizione di modalità di rilettura del rapporto tra gli edifici urbani aperti, di una revisione critica delle tipologie abitative alla luce delle più recenti esperienze europee al fine di favorire la nascita di nuove unità residenziali. Uno strumento che, pur se allegato alle Norme tecniche per l’attuazione dei Piani di Edilizia Economica e Popolare, non è mai stato concretamente adottato. Quello stesso Codice di pratica che affrontava due nodi critici, oggi di relativa attualità e, pertanto, inapplicati: quello della flessibilità dell’alloggio e quello della sostenibilità. Il primo, nella speranza di superare l’unico esito sin oggi raggiunto: quello della neutralità dello spazio dell’abitare. Un ambito reale di ricerca, quello della flessibilità dello spazio, per disegnare le forme dell’abitare sulla base dei nuovi criteri di uso dello spazio da parte di un’utenza assai diversa rispetto anche a quella degli ultimi venti anni. Il concetto di sostenibilità, infine. Un principio che oggi si sostanzia unicamente nell’applicazione brutalmente elementare e meccanica di metodi e strategie funzionali esclusivamente a detrazioni fiscali, senza l’esistenza di alcun supporto normativo, tecnico e culturale in grado sia di accogliere proposte in realmente capaci di incidere, in maniera strutturale, sui dati “sensibili” dell’organismo edilizio, sia di migliorare la vivibilità degli alloggi, le modalità di socializzazione degli abitanti e la qualità degli spazi collettivi. Il tema della nascita dei nuovi quartieri residenziali permane e, con essa, quella dell’assenza assoluta di modalità attraverso le quali questi quartieri si insediano in rapporto al tessuto esistente e con essi le persone, le loro aspirazioni e le loro necessità. Il rispetto verso le persone, a volte utilizzatori finali, per quanto inconsapevoli, impone di continuare a credere che una nuova qualità per la città futura può essere ancora scritta. Tanto vale che la scuola, con più intensità di prima continui a farlo. Considerando per primo l’uomo al centro di ogni progetto.
AG Febbraio 2011 |