Quando architettura e politica si parlavano
Lì sta la mia architettura, davanti al mondo civile, che un giorno si esprimerà su di essa, in funzione del tempo e della sensibilità degli uomini.
Oscar Niemeyer, Sulla forma nell’architettura
La prima metà del mese di gennaio la copertina di (h)ortus ha ospitato un appello per la salvaguardia e la tutela della Piazza Guido da Montefeltro, opera di Maurizio Sacripanti a Forlì, che rischia la demolizione in seguito all’adozione di un piano urbanistico attuativo per il centro storico.
Questa vicenda si è trasformata in un caso nazionale e la dichiarazione dell’Amministrazione Comunale forlivese di avviare un confronto, aprendo un dibattito finalizzato alla rilettura di questo invaso urbano nel centro storico della città, appare come un primo convincente risultato conseguito.
Il rapido susseguirsi di eventi, di cui parleremo nel dettaglio in altre occasioni, ha offerto tuttavia lo spunto per una riflessione da riportare all’interno di questo editoriale.
Una riflessione che parte da un assunto, formulato sulla base di una duplice valutazione: la prima interessa l’architettura realizzata in Italia negli ultimi trenta anni del secolo appena concluso, la seconda riguarda l’architettura che si progetta e si realizza in Italia oggi, anche e soprattutto alla luce del carattere delle contemporanee esperienze che si compiono al di fuori del nostro paese.
L’assunto si sostanzia nella oggettiva constatazione che l’esponenziale accelerazione acquistata dalla nostra società nei modi di produrre e consumare le proprie attività (e conseguentemente di vivere lo spazio della città) ha reso, agli occhi di molti, alcune architetture fortemente “inattuali”. In un arco di tempo molto più compresso di quanto non accadesse nel passato.
Il Corviale a Roma, lo Zen a Palermo, il Gallaratese a Milano, per citare alcuni esempi che più di altri hanno occupato le pagine della storia dell’architettura del nostro paese di quegli anni, sono diventati oggetto di processi, più o meno sommari, nel corso dei quali le responsabilità attribuite all’architettura hanno di gran lunga superato le responsabilità attribuibili alle Amministrazioni che ne hanno governato e controllato la nascita sotto profilo della formazione del tessuto sociale da insediare in questi complessi.
I ragionamenti sul destino di queste opere di architettura hanno condotto, oggi, a esiti e posizioni assai diverse tra loro. Per alcuni casi di studio sono aperti ambiti di ricerca finalizzati a stabilire criteri di recupero e adeguamento degli spazi dell’abitare, alla luce delle mutate esigenze delle persone che ne fruiscono. In altri contesti, per gli stessi casi di studio, in maniera più o meno provocatoria, se ne chiede la demolizione.
In altri casi ancora, come il Laurentino 38 a Roma, la demolizione, ancorché parziale, è stata realmente eseguita.
La proposta di demolizione della piazza Guido da Montefeltro a Forlì, che segue di poco l’analoga proposta per il complesso scolastico realizzato su progetto di Luigi Pellegrin a Pisa, rappresenta la chiara volontà di estendere il “processo” dalle architetture di carattere residenziale anche a quelle architetture che interessano il disegno degli spazi e dei servizi pubblici.
Tralasceremo in questa sede l’approfondimento sullo stato della normativa del nostro paese in materia di vincolo delle opere di architettura contemporanea. Chi è preposto a esprimere giudizi di valore e, conseguentemente, imporre un vincolo, non può ipocritamente basarsi solo sulla data di edificazione di un manufatto. Ciò consentirebbe di tutelare molte opere di architettura contemporanea oggi deturpate.
Ma questa è un’altra storia, torniamo a noi.
Alla luce delle valutazioni espresse prima di questa breve digressione, mi pare possibile ravvisare due categorie attraverso le quali possa declinarsi questa condizione di inattualità.
La prima, di carattere funzionale, può essere stimata legittima per quanto appena affermato nel merito del rapido e continuo cambiamento dell’uso e dello sfruttamento degli spazi da parte della società contemporanea.
È compito dell’architetto e della committenza, tanto quella pubblica quanto quella privata, avviare un percorso che conduca alla ri-lettura e alla re-interpretazione dei caratteri funzionali e spaziali di determinate opere affinché possano recuperare una condizione di attualità sotto questo specifico profilo.
È compito dell’architetto e della committenza misurarsi sempre con il giudizio di valore espresso dalla storia, anche e soprattutto dalla storia dell’architettura, specie quando essa è l’espressione dello spirito critico di figure il cui pensiero è scientificamente riconosciuto anche in ambito internazionale.
Azioni che nel resto del mondo sono prassi, come nel caso della centrale termoelettrica di Bankside di Londra, più volte vicina alla demolizione, divenuta sede della Tate Modern Gallery, uno dei più prestigiosi musei al mondo, dopo l’opera di riconversione operata su progetto degli architetti Herzog & de Meuron.
L’azione di recupero della High Line nel West side di Manhattan, oggi un parco eseguito su disegno di Diller e Scofidio, può considerarsi come un altro sintomatico esempio da portare a riferimento.
La seconda categoria che definisce questa condizione di inattualità è, invece, di carattere linguistico e morfologico. In forza della sua natura, questa categoria circoscrive un ambito di riflessione molto più complesso.
L’evoluzione e la spettacolarizzazione del linguaggio dell’architettura contemporanea - supportata da una solidissima campagna mediatica e pubblicitaria - la crescita della ricerca nell’uso di nuovi materiali da costruzione, della tecnica e delle soluzioni tecnologiche, hanno condotto inesorabilmente alla creazione di un sistema di produzione di immagini costantemente in trasformazione.
Immagini prodotte azzerando un fattore, quello del tempo, indispensabile alla corretta elaborazione di un progetto di architettura. Immagini da riprodurre, spendere e vendere in tempi brevi, sia se richiesti dalle pubbliche Amministrazioni, sia se oggetto di anonime e sicure azioni di speculazione edilizia a beneficio degli investitori privati. Immagini che si materializzano in oggetti indifferenti al luogo, alle logiche del tessuto in cui si inseriscono.
Immagini che hanno divorato e cancellato il significato di buona parte della ricerca condotta in Italia a partire dagli anni sessanta del novecento, qualificandola come obsoleta o, peggio ancora, come ragione essenziale del progressivo degrado di parti delle nostre città. Quella stessa architettura che all’estero leggono, studiano e metabolizzano assumendola come costante riferimento nell’elaborazione progettuale, perché le riconoscono un significato.
Un significato, proprio di una stagione della storia del nostro paese, riscontrabile nell’attenzione che quelle architetture ponevano al tema del luogo, anche in occasioni che hanno condotto a scelte marcate da un’apparente e autonoma gestualità, nell’attenzione alla geometria come significato progettuale, al rapporto tra norma e forma.
Le scelte operate attraverso questi progetti e queste opere di architettura per il disegno dello spazio pubblico e privato erano il frutto di un momento della nostra storia assai significativo sotto il profilo culturale, soprattutto perché architettura e politica si parlavano.
Un periodo nel quale, tanto nelle zone di espansione lontane dalla città, quanto nei centri storici, il governo delle città, e il mondo culturale chiedevano una ricerca di nuovi rapporti tra abitazioni, strade e piazze, di nuove, “inedite” modalità di declinare il rapporto con il tessuto edilizio esistente. Poi la politica ha lasciato sola l’architettura e, laddove il rapporto con il tessuto sociale è maggiormente critico, le conseguenze sono evidenti. Ideologia, avanguardia sono diventati esclusivamente sinonimi di posizioni che hanno condotto al degrado delle nostre città.
Un dialogo con la politica, però, che l’architettura contemporanea ha saltato di slancio: non solo architettura e politica non si parlano più, anzi, oggi si presenta un paradosso spazio temporale.
La politica è succube dell’architettura di sistema delle star, desiderosa soprattutto di rappresentarsi attraverso opere che calano nelle nostre città come astronavi in assenza di un disegno generale.
La politica è sotto ricatto dell’edilizia privata perché dalle compensazioni ricavate dall’autorizzazione a realizzare nuovi insediamenti recupera fondi per l’attuazione dei propri programmi.
Con buona pace dell’esercito della salvezza degli architetti che ci sono nel nostro paese.
Verrebbe da pensare che forse politica e architettura non hanno interesse a confrontarsi. Se così non fosse, si aprirebbero consistenti fronti per sperimentare una nuova forma di ricerca, intimamente legata alle modalità di rilettura di questi spazi, alla luce delle nuove esigenze dell’abitare e del vivere contemporaneo lo spazio pubblico.
È un lavoro complesso, coraggioso, ma per questo affascinante. Si tratta di tornare a lavorare eticamente per porre l’individuo al centro di ogni progetto. Sensibilizzare, considerare, spiegare, rileggere, sono alcune delle azioni che sottendono il lavoro di tutti gli attori del processo di costruzione dello spazio dell’architettura.
Interpretare, attualizzare, ricucire, misurare, sono solo alcune delle possibili azioni di stretta competenza degli architetti, che di questo sistema, nel bene e nel male, sono stati e saranno comunque parte integrante.
A prescindere dal contesto socio-politico l’architetto resta sempre il garante, sotto il profilo etico, della qualità delle scelte che cambiano il volto delle nostre città e, conseguentemente, della vita delle persone che le abitano.
Esiste un problema politico, ma non basta come alibi. Permane per tutti noi architetti l’obbligo di un senso di forte responsabilità, che investe essenzialmente un tema culturale e civile, per essere più espliciti, un tema progettuale.
Così architettura e politica potranno più facilmente tornare a parlarsi, come è appena successo per la Piazza Guido da Montefeltro di Maurizio Sacripanti a Forlì.
AG
Febbraio 2010
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