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Rovine e architettura Il rapporto che l’architettura ha stabilito con la presenza delle rovine nel corso dei secoli ha quasi sempre prodotto un arricchimento della sfera progettuale, sia sul piano teorico, che costruttivo, con interessanti sviluppi indirizzati in varie direzioni.
Una di queste, corrisponde alla messa in luce della realtà deperibile dell’architettura. A tale proposito, dopo aver visitato una mostra di paesaggi con rovine esposte al Salon di Parigi del 1767, Denis Diderot, osserva: «Tutto svanisce, tutto perisce, tutto passa, rimane solo il mondo, soltanto il tempo continua» (1). Una posizione concettuale che rovescia una visione del mondo classico che perdurerà fino al Novecento: la capacità dell’edificio di esistere in forma temporalmente indeterminata; come incisivamente esprime Paul Valery, attraverso le parole che fa pronunciare ad Eupalino, secondo il quale l’architetto ha la facoltà di trasmettere attraverso le proprie opere quel magico dono dell’immortalità che l’uomo in sé non possiede.
Caducità e durevolezza rappresentano una forma d’intima contraddizione che l’architettura assomma in sé e che la sua condizione di rudere mette in luce. Si tratta di una sorta di fragilità che non riguarda solo lo stato della materia in cui consiste, ma che investe anche la sfera teorica. In uno dei manifesti della serie “Pubblicità per l’architettura” (1975), Bernard Tschumi, presentando un’immagine della lecorbuseriana Ville Savoye in condizioni di grave degrado, nella parte superiore del foglio scrive: “La cosa più architettonica di questo edificio è lo stato di decadenza in cui si trova”; e nella parte sottostante l’immagine della villa: “L’architettura può sopravvivere solo dove nega la forma che la società si aspetta da essa. Dove nega sé stessa trasgredendo i limiti che la storia ha stabilito per essa”.
Aaron Betsky, nell’introduzione al catalogo dell’XI Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, delinea il senso del titolo dato alla manifestazione, “Architecture Beyound Building”: un invito a superare la realtà costruttiva dell’edificio e ad andare oltre, aldilà di esso. E questo, perché il processo che porta alla sua realizzazione, risulta essere imprigionato da una realtà complessa e limitante che non consente più all’architettura di rispecchiare il mondo. In questo modo, nello sviluppo della sua tesi, egli propone di considerare l’ipotesi di demolire edifici, piuttosto che erigerli, in quanto attraverso tale atto estremo è possibile cogliere la loro essenza strutturale, la loro verità. «Avendo perduto la finitura o la pelle, ci mostrano le varie parti con cui sono costruiti gli edifici. Indicano spazi senza definirli, permettendoci di fantasticare sul tipo di vita che forse o effettivamente ebbe luogo al loro interno. [...] Ovviamente, le rovine non si conformano alle norme e ai regolamenti dell’architettura, così come essa è attuata dalla pratica diffusa. Offrono invece modelli di un tipo diverso di costruzione. Le rovine sono state soggetto di poesie, di quadri romantici e hanno fornito uno sfondo scenico per tragedie. Eppure hanno avuto un ruolo anche in architettura» (2). Almeno a partire dal Quattrocento quando Brunelleschi e Donatello giungeranno da Firenze a Roma per studiare i suoi magnifici resti da cui trarre lo stimolo e la conoscenza per riuscire ad immaginare una nuova architettura, idealmente intesa come rinascita del glorioso passato.
Nel Settecento, poi, con il Grand Tour molti altri verranno a Roma per ammirare lo spettacolo delle sue rovine; una suggestione che infiammerà la fantasia e la sensibilità di poeti, pittori, scrittori, architetti. In Inghilterra si tradurrà nella teoria estetica del Picturesque, che influenzerà l’architettura degli edifici e del paesaggio e andrà dilagando anche in Europa.
Un importante e più recente intervento sui ruderi è il Grande Cretto ideato da Alberto Burri, per inglobare le macerie di Gibellina, prodotte dal terremoto del 1968 nell’area della valle del Belice, in Sicilia. Pur nell’unicità della sua espressione, esso ci offre un diverso metro di giudizio riguardo alle rovine del passato. Si tratta di un’immensa colata di cemento, attraversata da tortuose e strette viuzze, che racchiude e dà nuova forma alle macerie medioevali del paese, trasformandole in un’opera d’arte in sé drammatica e poetica, a un tempo, che si pone come coinvolgente presenza sostitutiva di un coacervo di memorie appartenenti all’intera comunità. «Era nella forma di un triangolo puntato lungo il pendio», scrive Christopher Woodward, «che dava l’impressione di una sorta di valanga pietrificatasi mentre stava a metà della sua discesa e rimasta quasi sospesa. In una valle così verde, quel puro cemento era surreale, con quel bianco abbagliante nel sole del meriggio siciliano» (3).
Un diverso sviluppo di questo rapporto tra architettura e archeologia è l’azione progettuale finalizzata al mantenimento e all’esposizione al pubblico della rovina; cosa che comporta, a volte, un intervento di ricomposizione, in chiave critica, dell’immagine e della spazialità originaria del reperto storico, com’è il caso del progetto di Franco Minissi per la Villa del Casale di Piazza Armerina, concepita come una serie di alveoli esagonali uniti a grappolo e posti a raggiera attorno ad un nocciolo centrale; una struttura leggera e trasparente in metallo e vetro che ha la caratteristica di essere uno spazio aperto e flessibile, potenzialmente estensibile.
Un ulteriore sviluppo di questa importante e fruttifera relazione tra il nuovo e l’antico è dato dal modo in cui nel corso degli ultimi decenni sono state affrontate e risolte le problematiche poste dal tema del “contenitore storico”, la cui questione di base riguarda la sua trasformazione spaziale/funzionale. E’ evidente che l’operazione d’adeguamento della struttura storica alle diverse esigenze spaziali si traduce, come osserva Costantino Dardi, in una forma di manipolazione, in uno stravolgimento del documento originario. «Solo il progetto è in grado di verificare», egli afferma, «il livello compatibile di ibridazione degli stili e di intersezione dei linguaggi; [...] evitando ad un tempo i rischi derivanti da una conservazione passiva che determina cristallizzazione, assenza di presidio, silenzio e corruzione; [...] impegnando il nuovo intervento sull’unico terreno storicamente e culturalmente legittimo, quello della ricerca di rapporti tra antico e moderno in termini di congruenza di misura e figura» (4).
Un esempio emblematico, tra i molteplici di cui si potrebbe fare cenno, è l’operazione di recupero realizzata da Andrea Bruno del Castello di Rivoli (Torino), incompleta opera di Filippo Juvarra. In tale contesto l’architetto ha operato impiegando moderne tecnologie al fine di conservare l’immagine dell’antica costruzione, «sottolineando l’idea del cantiere in metafisica secolare sospensione, continuando però l’opera interrotta nelle parti strettamente funzionali con la costruzione di una nuova scala in forme chiaramente moderne, sospesa in uno spazio preesistente e non mutato dall’intervento, che dichiara una possibile reversibilità e si colloca in una sequenza storica non equivoca» (5).
All’interno del quadro teorico/operativo delineato, questo mese viene presentato il progetto dell’Hedmark Museum a Domkirkeodden, Hamar, un museo archeologico realizzato da Sverre Fehn (1967 - 1969) e recentemente ampliato (2001-2005) a seguito dell’allargamento dell’area di scavo a cui la struttura espositiva direttamente si rivolge. All’interno dell’arco che va, dalla ricerca sul senso l’oggetto costruito aldilà di quello che in sé rappresenta, all’arricchimento di idee e di sensibilità progettuale/costruttiva prodotto dal rapporto tra architettura e rudere, le diverse tematiche prese in esame trovano in questa opera dell’architetto norvegese un interessante e significativo punto d’incontro.
MC
Ottobre 2008
Note
(1) Cit. in: Chistopher Woodward, Tra le rovine. Un viaggio attraverso la storia, l’arte e la letteratura, Guanda, Parma 2008, p. 142.
(2) Aaron Betsky, Interrogativi sull’architettura: meditazioni sullo spettacolo lì fuori, Marsilio, Fondazione La Biennale di Venezia, Venezia 2008, p. 16.
(3) Chistopher Woodward, Tra le rovine. op. cit., p. 81.
(4) Costantino Dardi, Contenitori storici: limiti della flessibilità, in: Francesco Perego (a cura di), Anastilosi. L’antico, il restauro, la città, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 245.
(5) Andrea Bruno, Ruolo delle tecnologie moderne nel progetto di conservazione dell’immagine, in: Francesco Perego (a cura di), Anastilosi. op. cit., p. 232.
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