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Alessandro Nieddu intervista: Doppiomisto, 2A+P, Emmeazero
Presentiamo tre nuove interviste realizzate dall'arch. Alessandro Nieddu a: Doppiomisto (Carlo Prati, Cecilia Anselmi, Sole Zamponi, Andrea Ciofi Degli Atti), 2a+p (Gianfranco Bombaci, Domenico, Cannistraci, Pietro Chiodi, Matteo Costanzo, Valerio Franzone), Emmeazero (Massimo Ciuffini, Ketty Di Tardo, Alberto Iacovoni, Luca La Torre), tre noti studi d'architettura italiani che svolgono importanti ed apprezzate indagini teoriche ed altrettanto interessanti proposte e realizzazioni architettoniche. Le domande rivolte ai diversi gruppi di ricerca, come nelle tre interviste precedenti, sono organizzate con il duplice intento di delineare, da un lato, la loro attività, i loro interessi culturali e, dall'altro, il loro rapporto critico con il "movimento situazionista".
Intervista a Doppiomisto
Fate un'autopresentazione
D: Siamo un gruppo d'architetti in fieri, che segue un percorso di formazione permanente. Essendo ancora molto giovani [lo studio si è formato da appena tre anni, n. d. r.] ci consideriamo come all'interno di un processo esperienziale che ci permetta di crescere, capire, decifrare quale strada possa essere posta di seguito a quelle gia percorse, nell'interesse dell'architettura e dello studio; tutto ciò, avendo come cardine il rispetto del fattore umano, inteso come onestà intellettuale verso se stessi e verso gli altri nella gestione dei rapporti di lavoro, sia all'interno dello studio, sia nella vita in generale; elementi di correttezza che poi vanno a riflettersi nella ricerca stessa dell'architettura.
Perchè questo nome?
D: Perchè siamo una doppia coppia; quindi come fosse una partita di doppiomisto a tennis, da giocare ogni volta, sia con le cose che di volta in volta ci troviamo ad affrontare, i temi che ci vengono proposti, sia una sorta di partita fra di noi, di confronto continuo, ricerca, di lavoro collettivo che necessita una forte presa di responsabilità, ma che poi come risultato dà i suoi bei frutti.
Raccontatemi la vostra formazione intellettuale, dall'università a tutto ciò che per voi è stato fondamentale.
D: In parte l'università, per vari motivi e quasi sempre, slegati dall'insegnamento accademico, vista anche l'assoluta mancanza di maestri in grado di guidarci in un percorso o comunque in grado di comunicarci un pensiero che fosse tale. Importante, soprattutto, è stato il movimento della Pantera come momento di riflessione e critica comune. Un'esperienza corale e collettiva di riappropriazione degli spazi dell'università. Allora, abbiamo iniziato una ricerca sui luoghi dismessi della città, sugli spazi da vivere diversamente, da risignificare. Carlo Prati è stato coinvolto direttamente in questo con gli SCIATTO (di cui faceva parte), ma forse senza che ci fosse ancora questa codificazione intellettuale, situazionista di ciò che si stava facendo. Non era estranea nemmeno l'area pop e del graffittismo di protesta. Per alcuni di noi fondamentale è stato il dottorato di ricerca [Carlo Prati e Cecilia Anselmi, n. d. r.]. Momento che ha permesso a studenti sfociati poi nella professione, di dedicarsi a passioni e riflessioni su importanti concetti maturati. Da qui la nostra fondamentale attenzione al tema dell'housing.
Cosa significa per voi fare architettura?
D: Rappresenta un insieme di cose, che sono: occuparsi della città, delle trasformazioni, delle mutazioni del territorio senza più distinzioni fra diversi saperi e singoli settori specialistici, credere in alcune idee concretamente realizzabili senza pensare che sia ancora possibile stabilire delle leggi assolute che, poi, informino di sé il destino della città e del territorio. Cercare, attraverso l'azione politica, quindi da cittadino consapevole, di riappropriarsi di alcune tematiche che sono lo specchio della crisi della società in cui viviamo. Quindi, occuparsi degli spazi pubblici, dei terrain vague, degli spazi di risulta, e del problema dell'housing. Dobbiamo mettere in discussione gli stessi principi che hanno governato fino ad ora la nostra professione. Non si può più parlare dell'architettura come ne parlavano i moderni, ma nemmeno come ne parlavano i post-moderni. Bisogna cercare una nuova visione che vada oltre e che passi anche attraverso la sperimentazione, la consapevolezza di essere cittadini e, quindi, di avere una propria coscienza politica nella professione, assumendosi le responsabilità in merito alle decisioni su tematiche di scottante attualità.
Ci sono integrazioni disciplinari continue nel vostro progettare e quali?
D: Certamente, l'architettura è, e deve essere, un sapere inclusivista, che si lega con le varie discipline che hanno a che fare con l'uomo, sotto vari aspetti. L'arte come rimando concettuale, la filosofia come riflessione sui grandi temi dell'oggi e la stessa tecnologia con le sue possibilità connettive.
Di cosa vi occupate ultimamente?
D: Siamo impegnati con i 5A+1 nel concorso indetto dal Comune di Roma "Meno e più/Bufalotta", e siamo nella fase finale.
Quali sono i lavori a cui siete più legati?
D: Sicuramente, il progetto per il Pontile attrezzato di Ostia, vincitore del concorso indetto nel 2004 dalla Regione Lazio. Ma anche quello per Elementalchile, anche a causa di riflessioni storiche legate al tema dell'housing
Un artista particolarmente interessante legato al vostro lavoro?
D: Essendo un gruppo di quattro persone, quattro cervelli e quattro diverse attitudini professionali, potremmo proporre vari nomi: Vito Acconci può accomunare le esperienze, con lo studio fatto sull'abitazione, l'analisi del concetto di straniamento, partendo dall'iconografia classica della casa che viene completamente ribaltata; egli riesce a rimettere completamente in discussione lo spazio abitabile e da abitare, attraverso la frammentazione dello spazio interno, capovolgendone i parametri esterni. Altri meno contemporanei hanno in qualche modo avuto un fondamentale ruolo: dal dadaismo con Marcel Duchamp, sino all'informale con Franco Fontana. La lista potrebbe essere più lunga.
Giudicate attuale il Situazionismo?
D: Per alcuni versi sicuramente si. L'analisi del carattere ludico della società che si andava via accentuando, la creazione delle situazioni attraverso un diverso approccio alla progettualità, oppure, ancora, la figura di Debord con la sua Società dello spettacolo, dove praticamente viene descritta l'attuale società sottomessa al controllo mediatico, ma convinta di essere più libera che mai.
Qual'è il vostro rapporto con queste tematiche?
D: Possiamo vedere quella che era la creazione delle situazioni di Debord e Constant come possibile ricerca nel fare architettura. Cerchiamo di creare delle situazioni progettuali che potrebbero portare ad un coinvolgimento, se vuoi passionale dell'utente. La stessa possibilità di far diventare abitante l'architetto è mediata dalla scelta d'imporre una qualche organizzazione precedente, in modo che il carattere ludico sia sempre argomento centrale.
E' stato anche per voi un normale ritrovarvi all'interno di tali discorsi?
D: Non pensiamo di fare riferimento direttamente a tali temi per quanto riguarda il nostro lavoro; in quanto sono nate sotto un'altra realtà storica, e sarebbe ingenuo riportarle, tout-court, all'oggi. Alcuni gruppi hanno tale rimando nel loro manifesto operativo. Non è il nostro caso. E' anche vero, però, che rientrano in vario modo nell'oggi e quindi sono fondamentale argomento di riflessione. Il primo contatto con tali temi è stato all'università con gruppi di studenti più anziani di noi di qualche anno che già si occupavano di tali idee. C'erano gli Stalker, che avevano già piena consapevolezza dell'operazione concettuale che stavano facendo, quando noi siamo arrivati. Carlo Prati ha fatto parte degli SCIATTO, altro gruppo impegnato nella ricerca situazionista e politica. Ma il nostro coinvolgimento rispetto a queste esperienze è stato, tangenziale. Peraltro, consideriamo tali temi parte della contemporaneità.
I concetti, le idee situazioniste che vi hanno coinvolto maggiormente?
D: La deriva, come fatto esperienziale attuato come studio della città. Attraverso la rete di RomaLab facciamo spesso delle derive, come pratica diretta dei luoghi. Ci si reca sul posto, lo si vede, lo si vive per il tempo che può servire a capire meglio alcune di quelle sottotematiche da tirare fuori ed elaborare dai luoghi; possono essere le relazioni che intercorrono fra chi vive giornalmente quei luoghi e gli spazi esistenti, le modalità di utilizzo e condivisione sociale.
Ditemi cosa sono per voi oggi, la deriva, il detournement, la psicogeografia.
D: Sono strumenti che rientrano nel nostro ambito di lavoro. Con RomaLab eseguiamo spesso delle vere e proprie derive nelle periferie della capitale, con lo scopo di verificare eventuali diverse attitudini dei luoghi, rispetto a quelli classici. Sono interessanti operazioni utili allo studio di parti di città altrimenti mai considerate adeguatamente al loro potenziale. Arriviamo a creare delle vere e proprie mappe psicogeografiche attraverso un deturnamento dei luoghi.
Quali sono personaggi situazionisti a cui siete più legati e a quali ritenete di dover qualcosa dal punto di vista artistico?
D: A Consant (e a New Babylon), per l'immensa produzione visiva che ci ha regalato: come una sorta di lungo sogno che abbiamo avuto la possibilità di percorrere. E a Debord, per le riflessioni che, anche se apparentemente slegate dall'architettura, rientrano dalla finestra, aiutandoci con una preveggenza considerevole nelle riflessioni sul nostro attuale modo di vivere e socializzare. La sua Società dello spettacolo è probabilmente un testo fondamentale oggi; consigliamo a chiunque non l'abbia mai letto, di farlo al più presto.
Debord diceva di voler ricreare dei luoghi, delle città, in cui fosse possibile il libero dispiegamento delle passioni. E' un obbiettivo comune al vostro lavoro?
D. Il discorso sulle emozioni, le passioni è incentrato sul fatto di rendere più o meno duttile un progetto: fare in modo che l'utente, i fruitori possano intervenire in qualche modo, fare qualcosa che lo coinvolga in maniera attiva e lo trasformi. Fare in modo che ci siano degli elementi mobili trasformabili è essenziale per far si che la singola personalità possa trovare una propria dimensione.
Trovate un'ipotesi reale e attuale quella di New Babylon, ossia di una città in divenire, realizzata, costruita dagli stessi abitanti ?
D: Crediamo che la matrice per una reale trasformazione della città si trovi all'interno della stessa città. In Italia abbiamo un territorio che ormai possiamo considerare saturo di costruzioni. Per cui pensare ancora di trasformare la città per consumo progressivo di territorio è un'assoluta e pericolosa utopia. La strada è quella di trasformare ciò che gia esiste, all'interno di un processo di mutazione autonomo alla città e ai suoi meccanismi di trasformazione sociali, economici, ecc. Quindi il ruolo dell'architetto è quello di cercare di capire questi meccanismi e interpretarli nel modo più appropriato possibile e capire cosa, della città già esistente esprima del potenziale per la propria crescita: l'indagine all'interno dei cosiddetti non luoghi, dei margini, dei vuoti urbani, degli spazi pubblici esistenti rientra in tale processo. Se prendiamo l'enorme problema delle abitazioni nella città di Roma, vediamo che è una sorta di falso problema: perché le case esistono, ci sono, sono presenti, ma sono vuote. Gli immigrati che vengono nel nostro paese alla ricerca di una vita migliore, senza un soldo né per comprare, né per affittare un appartamento, alla fine occupano interi edifici disabitati, inutilizzati. Li trasformano per poterci vivere e in qualche caso li adattano alle loro specifiche esigenze culturali. Noi dobbiamo sfruttare tali potenzialità del patrimonio costruito per la creazione di una nuova città. Teniamo conto che anche la mediterraneità del paese e della nostra cultura ci permettono un ulteriore scatto in avanti verso una possibile nuova dimensione delle città, che è dovuta essenzialmente ad una intrinseca capacità di auto-organizzazione.
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