Pagina 1 di 2 L’architettura è l’arte dell’equilibrio?
Roberto Secchi
Come spesso accade una domanda ne suscita altre. Soprattutto quando non sia posta da un soggetto attivo nello stesso settore di chi è invitato a rispondere. È la percezione della professione e del mestiere dell’architetto da parte di chi ne è estraneo che suggerisce la domanda in questione? L’architetto vi si riconosce? Perché l’architettura sarebbe l’arte dell’equilibrio ? Forse tra tutte le arti e le discipline è essa vocata più delle altre ad agire con equilibrio? Per l’equilibrio? L’equilibrio tra cosa? E poi cos’è l’arte e cosa l’equilibrio? L’equilibrio è inteso come misura? Come uguale ripartizione? Come moderazione? Come tale esclude la passione? Incoraggia l’oggettività e scoraggia la soggettività?
Eludiamo la prima e la più radicale delle domande presupponendo che si possa definire l’architettura un’arte – questione tutt’altro che risolta –, e attestiamoci sulla definizione classica di ars come abilità. Cosa che rimanda decisamente alla figura dell’architetto come faber, costruttore di spazi. Dunque, l’architettura sarebbe un’arte dell’equilibrio, ovvero chi la pratica avrebbe a che fare con l’equilibrio, dovrebbe essere dotato dell’abilità di far valere l’equilibrio. Questa enunciazione evoca diverse figure:
la ricerca dell’equilibrio tra le forze che agiscono sulla costruzione per garantirne la staticità; la valutazione dell’equilibrio tra le parti e gli elementi di un’opera come categoria estetica legata all’idea di concinnitas (1); la ricerca sino al raggiungimento dell’equilibrio tra i molti fattori costitutivi dell’opera e del processo progettuale; il rischio corso da chi esercita la pratica dell’architettura costretto a farsi acrobata tra i mille pericoli, la moltitudine di insidie che il suo percorso comporta; il legame che intercorre tra l’arte dell’architettura come arte dell’equilibrio e l’etica in virtù della comune radice delle parole aequilibritas ed aequitas nel termine aequus, equo, giusto.
La prima figura sottolinea il valore tettonico dell’architettura, la sua essenza di costruzione di spazi abitabili soggetti alle leggi della statica. Con la parola tettonica si evoca al tempo stesso l’antico termine tektonikè, che in greco significa arte del costruire, e le scienze della terra, di cui la tettonica costituisce una branca, quella dello studio della dinamica delle deformazioni della sua superficie, e che, riferita all’architettura, ci ricorda come essa collabori alla modificazione seppure alla microscala della crosta terrestre. Ogni oggetto ha una sua struttura che lo mette in grado di sussistere in uno stato di quiete secondo le leggi della fisica. Si potrebbe dire, semplicemente di esistere: un uovo, come un sasso, come un albero – forme naturali –, una colonna, come un arco, come una casa – forme architettoniche. Le diverse forme nelle quali gli oggetti si costituiscono devono tutti rispondere a tale requisito. Possiamo immaginare le forme nelle quali si presentano ai nostri occhi gli oggetti architettonici come attraversate da sollecitazioni. Queste sottopongono a vari generi di sforzi le parti più intime delle materie di cui sono costituite. Lo studio della forma in architettura include pertanto la sua idoneità a resistere alle sollecitazioni e, poiché è soggetta innanzitutto alla legge di gravità, a scaricarle al suolo. Nel segno delle leggi della fisica, il raggiungimento dello stato di equilibrio è la condizione della staticità dell’oggetto architettonico. Lo stesso dimensionamento delle sue membrature strutturali ed anche delle sue parti cosiddette portate si determina attraverso il calcolo di equazioni di equilibrio. Queste brevi e banali considerazioni non sono inutili quando si pensi alla noncuranza con la quale la valenza tettonica e costruttiva dell’architettura sia trattata dalla critica e dal pubblico dell’architettura più incline a considerare gli aspetti estetici e il comfort degli spazi architettonici. La solidità dell’architettura va poi considerata nella sua durevolezza nel tempo. La possibilità di permanere attraverso tempi anche molto lunghi di un’architettura si deve infatti alla cura che ci se ne prende per conservare in perfetta efficienza la sua capacità di opposizione non solo alle condizioni iniziali del suo carico, ma anche alla evenienza di circostanze nuove, dettate da eventi naturali o da modificazioni d’uso. In riferimento alla seconda figura si possono ricordare la tradizione dell’estetica classica che indica nel raggiungimento dell’armonia conferita al prodotto lo scopo dell’arte e l’idea stessa di composizione come conduzione all’unità indistinta degli elementi e delle sue parti componenti. In architettura diceva André Wogenscky, – celebre collaboratore di Le Corbusier (2) – “uno più uno fa uno”. La famosa triade vitruviana di firmitas, utilitas e venustas non ammette la prevaricazione di una categoria sulle altre ma prescrive il conseguimento del loro giusto equilibrio. Tutta l’architettura classica antica e moderna, si può dire sino alla Rivoluzione industriale, ha osservato questo principio. Come è noto, solo la sua crisi e la comparsa delle avanguardie storiche hanno aperto la strada alla sua palese contestazione. La triade vitruviana ha ceduto il passo a teorie che hanno celebrato e praticato la dismisura, la disarmonia e il brutto a vantaggio dell’espressione. Teorie che hanno riconosciuto dignità all’architettura solo puntando sul processo configurativo piuttosto che sull’opera compiuta, teorie che hanno rinnegato la possibilità stessa della perfezione in favore della perfettibilità, che hanno scosso dalle fondamenta le ragioni stesse dell’arte, che hanno decretato la sua fine, che hanno voluto ridefinire l’architettura attribuendole una sostanza esclusivamente tecnica, ludica o comunicazionale. Dall’equilibrio come symmetria, euritmia, secondo le categorie vitruviane e le sue successive interpretazioni presso i trattisti dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano e francese e presso i successivi commentatori, all’equilibrio ponderale, versione aggiornata dei principi compositivi dell’arte classica, propri delle teorie della configurazione volumetrica e spaziale degli autori più affermati del Razionalismo, l’equilibrio della composizione resta una necessità. Un autore come Paul Klee ne fa un perno centrale della sua Teoria della forma e della figurazione (3). Klee è stato uno dei professori più incisivi nella formazione degli allievi del Bauhaus. C’è equilibrio perfino nei quadri futuristi dominati dalla rappresentazione della velocità. Taut, uno dei massimi interpreti dell’architettura dell’espressionismo, sostiene che l’architettura è proporzione (4). La proporzione o la sproporzione (che è comunque sempre il prodotto in negativo di un ordine), restano alla base dei processi configurativi. C’è chi sostiene essere la proporzione il fatto fondativo dell’architettura stessa (5). Certamente l’equilibrio resta un obiettivo ed uno strumento necessario del processo configurativo, anche se privato dei significati simbolici che gli sono stati attribuiti. La dismisura dei dipinti di Caspar David Friedrich (6) non è forse anch’essa testimonianza della ricerca intorno all’equilibrio? Georg Simmel comparando la pittura del Rinascimento Italiano con quella di Rembrandt (7) evidenzia come nel caso della prima l’unità della rappresentazione sia costruita su una disposizione degli elementi sulla base di schemi geometrici predefiniti, mirati a stabilirne l’equilibrio e la gerarchia, mentre nella seconda l’unità scaturisca dalla vita stessa conferita ai personaggi e alle azioni della situazione narrata. L’accento è qui posto su una differenza di concezione dell’equilibrio della figura che risale alla diversa inclusione del fattore tempo nella rappresentazione ed alla esclusione della forma a priori in favore di una formatività (8) interna al processo operativo. L’architettura contemporanea ricerca anch’essa l’equilibrio della figura? Sono molti i casi in cui, nonostante dal punto di vista tettonico non se ne possa fare a meno, l’immagine conferita all’architettura sembra voler piuttosto sfidare le leggi della fisica che obbedirvi. Il grattacielo sfida nello sviluppo verticale la ragionevole appartenenza alla Terra delle costruzioni e dell’Umano, l’impiego di strutture in aggetto in dimensioni spesso smisurate, le audacie costruttive di molti progetti non provocano rassicurazione né suggeriscono l’impressione della stabilità. L’immagine dell’equilibrio non garantisce l’emozione che si vuole provocare nello spettatore. Ma è evidente che quando si entra nella sfera dello spettacolo, come l’architettura ha voluto fare o è stata indotta a fare, si cerchi di impressionare. Cosa dire poi delle architetture delle installazioni? Lì la volontà di generare sorpresa ed estraniazione raggiunge spesso il parossismo.
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