La Biennale di Massimiliano Gioni
Rossella Caruso
Mentre di quest’ultima edizione della biennale lagunare – appena inaugurata il 1° giugno (e aperta fino al 24 novembre 2013) – si è parlato e scritto già molto, il pubblico delle grandi rassegne d’arte contemporanea è in tendenziale crescita, e forse il fenomeno riguarderà anche la 55esima Esposizione curata da Massimiliano Gioni (la dOCUMENTA diretta da Carolyn Christov-Bakargiev ha chiuso lo scorso settembre con 860.000 visitatori paganti).
Non che si tratti di una certezza, né i “grandi numeri” sono di per sé un dato confortante sul piano della ricezione del contemporaneo; piuttosto si può ragionare su quali principi organizzativi risultino efficaci nel determinare un successo di pubblico, o anche valutare il peso delle scelte curatoriali e allestitive in relazione a un’imponente manifestazione che già dalla sua prima edizione, alla fine dell’Ottocento (1895), escogitava l’incentivo della riduzione del biglietto d'ingresso se abbinato a quello del treno (raggiungendo i 200.000 visitatori ai Giardini!), distinguendosi per il carattere internazionale e per una voluta impronta di laicità.
Del resto, il panorama attuale delle biennali e delle grandi esposizioni periodiche, che vedono la partecipazione di centinaia di artisti, si è andato negli ultimi due decenni diversificando in tutto il globo, agendo su flussi di visitatori a loro volta mossi da interessi vari e con il nuovo millennio geneticamente mutati. Nei giorni della vernice di quest’ultima Biennale, ad esempio, il numero dei giornalisti e critici accreditati era probabilmente pari a quello dei semplici visitatori, meno informati ma anche più pazienti e rilassati. Sia per gli uni, sia per gli altri il compito di orientarsi poteva apparire ancora più arduo, se non altro di fronte alla proposta onnicomprensiva del giovane direttore: Il Palazzo Enciclopedico – con entrambe le maiuscole – correlata a un’immagine/logo costruita intorno alla stilizzazione concentrica di un cervello, umano, emanatore di bersagli. Di fatto eravamo abituati alla sconfortante quanto realistica sensazione di aver visto molto, ma non tutto, ed elaborato poco. Soprattutto da quando in tali rassegne erano aumentati le performance, i video e i film (più o meno lunghi, fino alle ventiquattro ore di The Clock di Christian Marclay premiato con il Leone d’oro nel 2011) – disseminati lungo percorsi sfiancanti, da mappare costantemente – oltre ad artisti appartenenti a culture e famiglie linguistiche lontane dalla nostra, con nomi dunque difficili da memorizzare. A tutto questo ognuno aveva cercato di ovviare applicando un proprio criterio di selezione, proporzionato a personali capacità mnemoniche, talvolta confortato dall’efficacia di progetti curatoriali trascinanti (è certamente il caso delle biennali di Harald Szeemann, che nella sua Platea dell’umanità aveva ampliato territorialmente e concettualmente i confini dell’arte, restituendo all’essere umano una qualche centralità).
Le biennali, del resto, devono proprio alla loro cadenza temporale (che forse andrebbe riconsiderata, sulla scorta dell’esperienza di Kassel), l’impossibilità statutaria di un’organica pianificazione che tenga conto sia di eventuali nuove istanze estetiche e proposte, sia di nuovi nomi, da distribuire spazialmente tra il Padiglione centrale dei Giardini e l’Arsenale (concesso in uso dalla Marina Militare - Ministero della Difesa e recuperato funzionalmente dal 1999). Se l’esperienza biennalistica – in una realtà così particolare come quella di Venezia (sottratta ai suoi abitanti e ormai diventata un “museo all’aperto”) – è soprattutto un vagare disordinato tra le innumerevoli opere, installazioni, padiglioni; rallentato dalle lunghe file per fruire di situazioni progettualmente claustrofobiche e particolarmente delicate (o per accedere ai padiglioni stranieri durante i giorni inaugurali) – in una seppur temporanea condizione di apolidi accomunati da bisogni primari – allora il viaggio vale l’esperienza, anche oggi che l’accessibilità alle immagini è così digitalmente agevolata. Altrimenti si può pensare di ridefinire l’originaria rassegna veneziana, forzando ulteriormente le leve di un’autorialità, quella del direttore, che richiederebbe comunque una grande sapienza ed energia, a vantaggio di un’idea curatoriale coerente, anche se di necessità tendenzialmente autoreferenziale e unicista. È quest’ultima la scommessa che Massimiliano Gioni – anagraficamente ma non professionalmente giovane – avrebbe in definitiva vinto. Nonostante le perplessità avanzate da molti in occasione dell’ambiziosa enunciazione del progetto: inverare «il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraverso la storia dell’arte e dell’umanità», accomunando «personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza». Laddove Marino Auriti è un italo-americano, autodidatta (1891-1980), che nel 1955 depositava all’ufficio brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico di 136 piani, incompiuto. E che in Biennale, aprendo l’infilata dell’Arsenale, fa da contraltare, con il modello del suo edificio, al manoscritto illustrato di Carl Gustav Jung: il famoso Libro rosso, presentato per la prima volta in Italia al varco del Padiglione centrale ai Giardini, a segnare il luogo primigenio di un vasto immaginario dove la stessa rassegna di Gioni sembra confluire e decollare. Entro queste due polarità, incarnate da Auriti e Jung ed estranee al mondo codificato dell’arte contemporanea, si estende la moltitudine di opere, temi, autori «outsider e insider», nei quali riverberano aspirazioni tormentate e utopiche – spesso tradotte attraverso i mezzi tradizionali del disegno, della pittura e della scrittura – nel tentativo, a volte salvifico, di una metaforizzazione e di una decodificazione del mondo, dal microscopico al macroscopico, che non escluda la messa in campo di singolari vicende esistenziali. Autori già molto noti (e altre volte presenti in Biennale) e figure meno conosciute, con un’alta rappresentanza femminile, un numero inusitato di artisti defunti, e ampi spazi riservati all’art brut, concorrono alla costruzione di una wunderkammer aggiornata nelle suggestioni, più rarefatta, ma analogamente popolata da reperti, oggetti trovati e artefatti. E dove su tutto aleggia un principio di condivisione connesso al «potere talismanico dell’immagine», che ha permesso a Gioni di accostare liberamente figure appartenenti a generazioni diverse, nella convinzione che siamo «noi stessi media […] posseduti dalle immagini». Che poi la Mostra Internazionale d’Arte di Venezia sia ormai diventata «uno show-room per “merce” di lusso […]. La manifestazione dell’esibizione del potere economico applicato al mondo dell’arte» (Germano Celant) – riflettendo pienamente la realtà di oggi – e che gli artisti selezionati siano di fatto tutelati da gallerie, fondazioni private, case d’asta e potenti dei Paesi emergenti non è certo per responsabilità dell’attuale curatore, che pure appartiene al sistema. Piuttosto a quest’ultimo si riconosce la pervicacia nell’affermazione di un pensiero unificante che ha in sé un costante richiamo alle teorie e alle utopie del Ventesimo secolo – attraversando proprio il segmento storico coincidente con l’evolversi della rassegna lagunare – così come la fascinazione per l’esoterico e il misterico, nella costanza di un approccio antropologico che certo facilita le dinamiche di rispecchiamento dei visitatori. Il tutto attraverso una presentazione di tipo museale, l’unica in definitiva possibile date le premesse. Sia per rassicurare un vasto pubblico – supportato, come in un museo d’arte contemporanea di ultima generazione, da schede a parete con una breve biografia dell’autore e informazioni specifiche sull’opera in mostra – sia per soddisfare una generale richiesta di spazi idonei e confacenti. Che inoltre, in questo caso specifico, non penalizzino gli artisti scelti dal curatore rispetto a quelli proposti nei vari padiglioni stranieri – anch’essi da storicizzare e aumentati sensibilmente nel tempo –, con la novità quest’anno del Padiglione della Santa Sede. Se è pur vero che l’allestimento all’Arsenale, affidato da Massimiliano Gioni all’autorevole architetto Annabelle Selldorf – con studio a New York dal 1988, ma di origini tedesche – ha obbligato i visitatori abituali della Biennale d’arte visiva a riposizionarsi lungo un percorso ordinato e non più disorientante, è altrettanto incontestabile che la cura nell’organizzazione dello spazio espositivo dell’intera rassegna non poteva che essere una delle condizioni imprescindibili. Ma proprio l’Arsenale veneziano, che conserva la memoria fabbrile di una straordinaria economia preindustriale, e che è divenuto nel tempo spazio di grande sperimentazione per le biennali d’arte visiva e di architettura, soprattutto nelle edizioni degli anni Novanta (senza mancare di menzionare la Strada Novissima, ideata da Paolo Portoghesi alle Corderie già nel 1980), avrebbe richiesto una scrittura allestitiva che meglio dialogasse con il respiro monumentale e il disegno architettonico delle preesistenze storiche.
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
CARUSO Rossella |
2013-07-01 |
n. 70 Luglio 2013 |
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