La forma nell'architettura
di Oscar Niemeyer
a cura di Alfonso Giancotti
Il tema della forma nell’architettura è sicuramente un argomento assai complesso..
Può considerarsi oggettivo il dato relativo alla particolare attenzione che gli architetti contemporanei pongono nella definizione della forma e, di conseguenza, dell’immagine dell’opera di architettura.
Lo studio dell’’immagine che spesso coincide con la ricerca della spettacolarizzazione dell’oggetto architettonico conduce gli architetti a indagare oggi il tema della forma alla quale si piegano, sottraendo sempre più alla logica della triade vitruviana la funzione e la struttura.
In questa ottica mi è parso opportuno riproporre alcuni stralci, quelli che ho ritenuto maggiormente significativi, di uno scritto di Oscar Niemeyer del 1978 pubblicato in Italia nello stesso anno dalla Arnoldo Mondadori Editore di Milano, nella consapevolezza di affidare la riflessione sul tema assai delicato della forma nell’architettura ad un maestro che più di ogni altro, a mio parere, ha indagato attraverso le sue architetture, il tema dell’astrazione, del plasticismo e della libertà della creazione spaziale. Con passione, rispetto e nella consapevolezza dell’importanza civile e sociale del lavoro dell’architetto.
Il mio intento, nello scrivere questo breve testo, è stato quello di chiarire il mio pensiero sul problema della forma nell’architettura, assunto che costituì, a mio modo di vedere, uno spiacevole equivoco aggravato dal funzionalismo, utilizzato da piccoli gruppi che si servono di esso ancora oggi. Mi sento ben disposto per questo compito. E’ un problema che mi ha occupato per tutta la vita e nel quale mi imbattei nel 1940, quando progettai le opere di Pampulha, nel Belo Horizonte.
E, poiché l’idea è quella di scrivere un libro succinto e divulgarlo all’estero, tenterò di farlo breve e conciso, facile da leggere e capire. In esso mi accingo, tuttavia, a toccare altri problemi legati all’architettura, e a dimostrare, con l’insieme dei lavori che ho elaborato, che è possibile esercitare la professione senza isolarsi, mantenendosi, come si dice, politicamente impegnati.
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Nell’architettura la forma plastica ha potuto evolversi grazie alle nuove tecniche e ai nuovi materiali che le danno aspetti differenti e innovatori.
Dapprima vi furono le forme massicce rese necessarie dalle costruzioni in pietra e mattone; poi sorsero le volte, gli archi e le ogive, i vani immensi, le forme libere e inattese che il cemento ha reso possibili e che sollecitano sempre più verso temi moderni.
Davanti a questa continua e inevitabile evoluzione e ai programmi che si apprestano, voluti dalla vita e dal progresso, l’architetto concepisce, via via nel tempo, il suo progetto:; freddo e monotono o bello e creativo, a seconda del suo temperamento e della sua sensibilità. Per alcuni, è la funzione che conte; per altri, si deve unire quella bellezza, quella fantasia, quell’imprevisto architettonico che costituisce, anche per me, l’architettura vera e propria.
La preoccupazione di creare la bellezza è, senza dubbio, una delle caratteristiche più evidenti dell’essere umano, sempre in estasi davanti a questo affascinante universo in cui viviamo. E ciò lo ritroviamo nelle epoche più remote, con il nostro preistorico predecessore che dipinge le pareti della sua caverna ancor prima di costruire il suo rifugio.
E la stessa cosa si ripete nei tempi seguenti, a partire delle piramidi d’Egitto. Architettura-scultura, forma libera e dominatrice sotto gli spazi infiniti.
La bellezza e la forma plastica nell’architettura, questo è il tema di cui voglio parlare – senza però farne un ozioso rendiconto – tenendo come base il tempo presente e la mia architettura.
Comincerei ricordando la situazione della forma dell’architettura nel ’36, quando cominciai la mia vita di architetto e l’architettura di quel tempo si affermava tra di noi sotto il pieno pontificare del funzionalismo, che ricusava qualsiasi libertà di creazione e di invenzione architettonica dimenticando che essa era stata sempre presente nei periodi aurei dell’architettura.
Era il tempo della pianta interna per l’esterno, dell’angolo retto, della macchina da abitare, della imposizione dei sistemi costruttivi, delle limitazioni funzionali che non mi convincevano specie pensando alle opere del passatoi tanto ricche di invenzione e lirismo. Non riuscivo a capire come, nell’epoca del cemento armato che offriva tutte le possibilità, l’architettura di quel tempo usasse un vocabolario tanto freddo e ripetitivo, incapace di esprimere in tutta la loro grandezza e pienezza quelle possibilità.
Ricordavo, allora, i vecchi tempi, quando, limitato da una ricerca ancora ai primordi, l’architetto penetrava coraggioso lungo il cammino del sogno e della fantasia.
Ma l’architettura contemporanea basava la sua presenza nelle tecniche costruttive che tutto dovevano modificare, appoggiandosi al funzionalismo per realizzare la metamorfosi desiderata.
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E il funzionalismo si trasformò nella sua arma preferita, la libertà di ideazione col suo oppressivo rigorismo strutturale.
Durante i primi tempi, accettai tutto ciò come una limitazione provvisoria e necessaria, ma poi, con la vittoria dell’architettura contemporanea, mi rivoltai completamente contro il funzionalismo, desideroso di vederla realizzata con tutte le nuove tecniche ed entrare nel campo della bellezza e della poesia.
Questa idea giunse a dominarmi, come una forza interiore insopprimibile, che nasceva a volta a volta da antichi ricordi, delle chiese di Minas Gerais, delle donne belle e sensuali che si incontrano nella vita, delle montagne tronche, scultoree e indimenticabili del mio paese. “Oscar, tu hai le montagne di Rio negli occhi”, ecco cosa mi disse un giorno Le Corbusier.
Ma era la forma astratta che mi attraeva più frequentemente, pura e sottile, libera nello spazio alla ricerca dell’effetto architettonico. E ad essa mi attenevo, ricercandola con ogni tecnica, certo che molti l’avrebbero criticata, con quella vocazione alla mediocrità che nulla concede all’opera creatrice.
Questo spiega il mio impegno relativo alle opere di Pampulha, benché fossi appena uscito dalla scuola di architettura, ma già preso da questa imperiosa volontà di contestazione e di sfida. E Pampulha sorse con le sue forme svariate, le sue volte diverse e le curve della pensilina della Casa do Baile a provocare i tabù esistenti.
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Ma non tutti sorridevano. Per i più dotati Pampulha era una scelta attraente, che consentiva quella libertà che il funzionalismo proibiva, per altri, era un cammino difficile da seguire e prima di tutto da concepire.[…] E le parole barocca e fotogenica si ripetevano, vuote e gratuite, poiché quelli che ci contestavano non avevano nulla di nuovo da suggerire. L’idea del barocco, che Herbert Reed capiva così bene, si riassumeva per essere un termine peggiorativo, le cui sfumature e i cui significati dimostravano di non conoscere.
La stessa curva, che tanto li turbava, era da essi disegnata in modo fiacco e sfibrato, poiché non lo sentivano, come noi, strutturata e fatta di curve e rette. Non riuscivano a comprendere persino le colonne, che noi non accettavamo per i nostri edifici e sostituivamo con forme libere e varie. Un giorno, raccontai come le progettavo, come nel disegnarle mi vedevo passeggiare tra esse e gli edifici, immaginando le forme che avrebbero avuto, la possibilità di variare i punti di vista, ecc. La mia intenzione era di mostrare come il problema plastico era laboriosamente pensato e come ci impegnavamo con cura in esso.
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Lavorammo molto. Ogni progetto era buttato giù in pochi giorni e il lavoro cominciava subito con la pianta della fondamenta indispensabili. Ricordo con nostalgia tutto ciò, la terra rossa che ci entrava nella pelle e quella determinazione che gli ostacoli rendevano ancor più ostinata. Ci sentivamo come in una grande crociata: costruire la Capitale di questo paese.
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Ma nel 1964 tutto cambiò. E la città che aiutammo a costruire si fece ostile e distante per tutti noi. L’Università di Brasilia, che Darcy Ribeiro ostinatamente creò, fu invasa dalle forze militari e la libertà dimenticata, il diritto dell’uomo annullato, e i più intrepidi e ribelli perseguiti come delinquenti comuni. La vecchia provocazione del pericolo comunista ricomparve sui giornali, come se il popolo già non la conoscesse la disprezzasse da molti anni. […] Brasilia divenne per me irrespirabile, guidata dall’asineria esemplare del colonnello Prates da Silveira. E dovetti viaggiare per anni, sempre ritornando in Brasile, per dichiara<re, quando era possibile, la rivolta che provavo di fronte a tanta ingiustizia, violenza e idiozia.
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Ma quelli che pretendevano di paralizzarmi diedero vita, senza saperlo, a una nuova e importante fase nella mia vita di architetto. Appoggiato da De Grulle, Malraux, Boumedienne e Mondadori, cominciai a innalzare all’estero un po’ della mia architettura. L’edificio del PCF, a Parigi, la sede della Mondadori, a Milano, le università algerine, ecc., divennero in quei paesi punto di attrazione architettonica, creando sorpresa, dissolvendo antichi dubbi e incomprensioni. E una sensazione di dovere compito si impadronì di me, non più costretto a spiegare ciò che facevo. Lì sta la mia architettura, davanti al mondo civile, che un giorno si esprimerà su di essa, in funzione del tempo e della sensibilità degli uomini.
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