Che cosa ci fa un monastero cistercense del XII secolo nel bel mezzo di Miami Beach, placidamente adagiato fra campi da tennis ed un canale bordato da vegetazione subtropicale? Pochi mesi fa un noto sito di architettura pubblicava la singolare storia del convento di S. Bernardo di Chiaravalle, edificio originariamente eretto nei pressi di Segovia intorno alla metà del secolo XII. Nel 1925, dopo quasi un secolo di abbandono, la struttura fu acquisita nientedimeno che da William Randolph Hearst, che la fece smontare e spedire, imballata in casse, negli Stati Uniti. Varie disavventure fecero sì che il monumento – ancora smontato – passasse di mano in mano, fino ad essere ricostruito, nel 1952, in Florida. Oggi il monastero, che è stato convertito in chiesa episcopale, viene presentato sul suo sito web come “uno degli edifici più antichi dell’emisfero occidentale”.
Questa vicenda, i cui lati quasi grotteschi non possono certo sfuggire al lettore, fornisce un interessante spunto di riflessione su uno dei temi cardine dell’architettura, ovvero la relazione tra edificio e sito. Quanto accaduto al monastero cistercense non è un caso isolato: il “trasporto” di un’architettura da un luogo ad un altro è stato a volte compiuto con motivazioni di carattere poetico (1), in altri casi con intenti meramente funzionali, o ancora, come per il tempio egiziano di Dendur, oggi “inglobato” in una grande sala del Metropolitan Museum di New York, per salvaguardare un edificio da certa distruzione, affidando alla musealizzazione il compito di garantire la sopravvivenza di un oggetto architettonico. Ma la domanda che ci poniamo è: il monastero spagnolo è ancora se stesso una volta traslato al di fuori del sito che lo ha originariamente accolto? Il tempio egiziano non cambia radicalmente la propria natura se collocato non più sotto la luce del sole, bensì all’interno di un vasto spazio museale? La sola consistenza materiale di un edificio è sufficiente a definirne il carattere di verità o ne rappresenta soltanto una parte?
Questi interrogativi sollecitano una riflessione sullo statuto dell’opera di architettura, su quanto di essa trascenda la sfera materiale. Siamo abituati a contemplare, nei musei di tutto il mondo, opere d’arte realizzate in luoghi distanti migliaia di chilometri: non è forse a Philadelphia la più grande collezione di arte impressionista fuori dalla Francia? Eppure la trasportabilità dell’oggetto artistico è una prassi che, oggi come in passato, non suscita clamore se non in rare istanze animate da rivalse postcoloniali. Ma per l’architettura la questione è assai diversa: un edificio è fatto di pietre, mattoni, legno, metallo, e in quanto oggetto materiale è misurabile, esattamente quantificabile. Così come è stato costruito, può essere “scientificamente” demolito e riposizionato altrove. In questa sua essenza di oggetto fisico non differisce molto da un Van Gogh o un Leonardo, ospitati oggi in luoghi assai lontani da dove furono creati, oppure da un tostapane o un frullatore che, prodotti in uno stabilimento dell’estremo Oriente, abitano indifferentemente in una cucina di Bel Air o di Biarritz. Le opere di architettura sono però composte, oltre che dai materiali con cui sono realizzate, anche da altro: fattori fisici o intangibili, la cui specificità è non di rado altrettanto importante per la definizione del carattere complessivo quanto gli elementi tecnici. Se ci è consentita una similitudine un po’ azzardata, la dualità che si configura tra l’oggetto materiale e quanto si svolge al suo intorno o all’interno ricorda, per certi versi, il rapporto che esiste nei computer tra hardware e software. La sola macchina è un pesante marchingegno privo di vita propria, mentre il software è ciò che la anima, utilizzandola e ponendo le condizioni perché venga usata dalle persone. Così l’antico monastero spagnolo era un tempo il risultato della somma tra contenitore materiale e tutti quei fattori che ne determinavano l’identità e l’uso: l’ambiente naturale e artificiale, lo spazio fisico che lo ospitava, la piccola comunità che lo abitava, nonché quella più grande per la quale l’edificio assumeva una valenza simbolica e identitaria. Tutti questi fattori determinavano la condizione nella quale l’edificio veniva realizzato e svolgeva poi la sua vita. Una volta traslato il monastero dall’altra parte dell’Atlantico, questi elementi esterni sono inevitabilmente rimasti indietro, per essere poi sostituiti da una nuova condizione, fatta di un diverso ambiente, una differente comunità di persone. La sostituzione degli utenti o della funzione chiaramente non impedisce la formulazione di un nuovo sistema, a volte anche altamente qualificato: la storia dell’architettura pullula di esempi di riuso di eccezionale interesse, che hanno conferito ad una preesistenza una profondità di significato anche maggiore rispetto alla sua condizione originaria. Ma possiamo dire altrettanto di un’architettura in cui sia stata interrotta la relazione tra oggetto costruito e sito? A quest’interrogativo probabilmente non è possibile fornire una risposta univoca, poiché l’istituzione di un rapporto intimo tra architettura costruita e sito è un atto di progetto, scaturito pertanto da una precisa intenzionalità dell’autore. A volte la relazione produce un impatto diretto sulla morfologia o sulla costruzione dell’edificio, in altri casi il legame è più sottile, non percepibile se non attraverso l’esperienza diretta, eppure tanto forte da stabilire un rapporto letteralmente simbiotico tra architettura e sito (2). L’atto di progettare, di istituire un legame più o meno evidente con il sito consiste nell’interpretare la condizione, trasformandola in una situazione. Più o meno esplicitamente, diversi autori sostengono che il rapporto tra architettura e sito è in realtà di carattere fortuito, non necessario né intenzionale: si può, in altre parole, prescindere dall’attribuire all’atto del situare un rilievo sia sul piano della costruzione spaziale, sia in relazione alla sfera simbolica (3). Pur ammettendo che l’opera d’architettura può darsi in tutta la sua completezza soltanto nella sua forma realizzata, va comunque constatato che il sito è stato a volte considerato un fattore variabile, intercambiabile, una sorta di accessorio che l’edificio riceve dopo essere stato progettato. Questa propensione, che testimonia la fede nella possibilità di autonomia dell’architettura, va anche collegata alle alterne vicende del pensiero sul concetto di Natura, le cui oscillazioni hanno storicamente orientato la pratica progettuale. Negli scorsi decenni, peraltro, la proliferazione di realizzazioni e progetti di architetture mobili, nomadi, temporanee, di emergenza, ecc. ha consentito di iscrivere a pieno titolo il no-place tra gli strumenti della disciplina. Seguendo una parabola inversa rispetto all’arte, che si rivela sempre più interessata al tema del site-specific, l’architettura sembra invece volersi liberare dal vincolo – a volte costrittivo – con il sito.
Al di là di quelle che possono essere posizioni personali, è evidente che né il legame tra architettura e sito, né la sua assenza, possono garantire la qualità dell’esito finale. Su questo tema la contemporaneità dispiega tutte le sue contraddizioni, manifestando in certi casi la volontà di stabilire una vera e propria identificazione fisica tra architettura e sito, quasi il costruire si volesse configurare come azione naturale, o l’edificio un’estensione del territorio, mentre in altri casi si manifesta una brillante alterità. Il bisogno di ecologia dei nostri tempi viene interpretato da un lato come ricerca di una corrispondenza diretta tra natura e artificio, dall’altro come possibile reversibilità dell’intervento, nella logica della non-permanenza. Quale che sia l’attitudine del progettista nei confronti del sito, che può peraltro variare anche sulla base del singolo intervento, è opportuno osservare che il valore di questo legame è estrinseco, cioè capace di acquisire un significato solamente nel quadro di un più ampio e articolato ragionamento. È plausibile ipotizzare che sia la condizione stessa a richiedere una particolare attenzione nel situare l’edificio, laddove siano presenti dei fattori rilevanti che possono diventare – per dirla con Rogers – materiale di progetto. Ma che il sito faccia sempre la parte del leone, dettando condizioni anche quando non è in sé caratterizzato, è un’inutile schiavitù autoimposta da una certa cultura architettonica che, in mancanza di più sostanziosi appigli, cerca il genius loci anche dove questo non c’è mai stato, tanto da giungerne persino a crearne uno fasullo. La radicalizzazione di una posizione o dell’altra è l’unica soluzione che – come sempre – sembrerebbe dunque da evitare. La falsificazione del sito, come nel caso del monastero di S. Bernardo, produce un tale spostamento di asse che l’edificio non è più, in alcun modo, confrontabile con quello che era un tempo. Ma anche l’eccessivo radicamento, il bisogno di fondere l’architettura quasi carnalmente con il sito conduce, molte volte, a grottesche forzature. In tempi di radici deboli, territori devastati e città generiche è difficile ipotizzare che la cultura architettonica, se non in pochi, isolati casi, possa trovare una ragione forte del proprio operato nella ricerca del legame tra costruzione e sito. Allo stesso tempo appare però importante che, salvo quando si parla di architettura trasportabile, il “radicamento” delle costruzioni, come forma di resistenza all’avanzata del “generico”, possa continuare a garantire un legame, seppure labile, con la specificità dei luoghi.
FDM Maggio 2011
Note (1) Un caso emblematico di questa singolare pratica è quello del Museo Di Lorenzo a Gibellina. Francesco Venezia, Il trasporto di un frammento, in Lotus, n. 33, 1981, pp. 74-78 (2) Nel dicembre 2003 la casa Farnsworth di Mies van der Rohe è stata venduta all’asta e acquistata dal National Trust, che l’ha successivamente aperta al pubblico. Nelle settimane precedenti l’asta si era sparsa la voce che un potenziale acquirente avrebbe voluto trasportare l’abitazione in un altro sito: questo pericolo ha tuttavia prodotto una forte mobilitazione pubblica, fondata sulla consapevolezza che, nonostante la sua apparente “trasportabilità”, l’edificio di Mies è fortemente ancorato alla specifica condizione naturale nella quale sorge. Al contempo il carattere del sito lungo il Fox River è nettamente determinato dalla presenza della casa. (3) I riti di fondazione di una città, di un edificio sacro o di un’abitazione, illustrati egregiamente nei testi di molti storici dell’architettura e antropologi, consistono primariamente nell’istituzione di un legame simbolico di carattere sacro tra l’architettura e il luogo dove questa viene eretta. Allo stesso tempo, comprendevano frequentemente anche il primo atto di misurazione del luogo, sulla base del quale veniva poi creato l’impianto architettonico.
Foto del Monastero di S. Bernardo di Chiaravalle (c) Simon Astor |