L'architettura clonata
Andrea Moneta
Entrando nello specifico di cosa si sia costruito in questi ultimi anni a Roma per quanto riguarda l’edilizia residenziale, notiamo una impressionante sequenza di edifici-clone di se stessi, una situazione talmente imbarazzante che suggerisce ipotesi allarmanti: gli architetti hanno definitivamente abdicato alla loro professionalità massimizzando i profitti così come farebbe una società di capitali, a scapito di ciò per cui vengono pagati?
Questo significherebbe che l’operazione progettuale si sia ridotta al mero utilizzo della recente cultura del “copia e incolla”, dove pezzi di case o interi edifici vengono riprodotti – grazie al CAD – in una serie infinita di esemplari identici a se stessi o che si differenziano tuttalpiù per l'estensione planimetrica e il colore delle facciate.
Ponte di Nona, come altri comprensori in edificazione a Roma, è un vero e proprio campionario di questo tipo di architettura “clonata”, dove l’edificio può essere ripetuto in lotti diversi adattandolo alle dimensioni planimetriche ed altimetriche imposte dal planovolumetrico.
Le tipologie vengono così allungate, accorciate, stirate in altezza aggiungendo o togliendo piani alla bisogna; gli alloggi, con i loro schemi distributivi e impiantistici già pienamente rodati per non dire standardizzati, vengono “vestiti” da involucri edilizi spesso di sovietica ispirazione, realizzati in intonaco o, per conferire pregio e quindi vendibilità all’immobile, in cortina di laterizio.
Non solo, la stessa figura architettonica replicata, perfettamente uguale a se stessa, è spuntata qua e là con la velocità dei funghi, in tutta la periferia romana o, per essere precisi, in ogni cantiere dove abbia operato lo stesso costruttore e quindi, necessariamente, lo stesso architetto.
Guardando le pubblicità di questi edifici sulle riviste del settore immobiliare, è imbarazzante notare come l’utilizzo della stessa tipologia architettonica permetta addirittura l'uso della stessa fotografia per localizzazioni completamente diverse, così come appare per gli esempi di Ponte di Nona, Bufalotta e Malafede, ovvero sempre lo stesso – purtoppo pessimo – risultato architettonico.
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Elaborazione dell'autore con esempi di architettura “copia & incolla” su pubblicità di settore a Roma |
Parlando di tipologia e consumo di territorio, se ci allontaniamo di poco dai margini della città ecco spuntare i quartieri suburbani realizzati con case a schiera e giardino, rigorosamente identici fra loro, luoghi strappati all'Agro Romano nei quali la piccola borghesia cerca di sfuggire ai costi delle zone centrali e al caos cittadino per rifugiarsi nella ex-natura, dimenticando che occorrono poi ore di traffico quotidiane per gli spostamenti casa-lavoro.
Cosa è successo nel frattempo? come si è potuto arrivare ad uno scempio così generalizzato da diventare caratterizzante l'immagine della periferia di una metropoli come Roma?
Certamente il fenomeno è potuto dilagare incontrastato grazie anche a quello che eufemisticamente nel Testo Unico dell'Edilizia è stato chiamato «lo snellimento della procedura per il rilascio della concessione edilizia» attuato, fra le altre cose, attraverso l’eliminazione della obbligatorietà del parere della Commissione edilizia, la cui sopravvivenza è stata quindi affidata all’autonoma scelta dei Comuni.
Inevitabilmente moltissimi comuni, piccoli e grandi, da nord a sud, hanno colto l'opportunità di deliberare direttamente l'abolizione della Commissione Edilizia, sbarazzandosi così di quello che possiamo considerare essere stato l'ultimo baluardo della qualità architettonica in Italia.
Un altro aspetto riguarda il ruolo degli imprenditori e la loro tendenza esasperata ad un contenimento dei costi di produzione tale da riflettersi inevitabilmente sia sul livello professionale dei progettisti che sull'impiego dell'architetto come semplice "impiegato"; questo può accadere perché il mercato del mattone dà ai costruttori la certezza per cui il prodotto edilizio si vende comunque, bello o brutto che sia, anche se replicato e clonato all'infinito per ogni dove.
Qui entra in gioco la coscienza del fare architettura: in un paese che grida vendetta per gli abusi edilizi che ricoprono buona parte del territorio, là dove geometri e ingegneri edili imperversano indisturbati nel ruolo di progettisti, se in Italia anche gli architetti abdicano al loro ruolo, quale strada potrà prendere l’architettura per cogliere la sfida della complessità? Il futuro sarà caratterizzato dall’ignavia edilizia?
Se come afferma Gregotti «non vi è più nulla che faccia discutere, né più alcuna regola da infrangere, semmai la ricostruzione di regole farebbe discutere», dopo il lungo periodo iconoclasta e a-storico del Movimento Moderno, della deriva storicista e post-moderna, va recuperato proprio quel rapporto critico col passato che implichi una metodologia applicativa a garanzia delle inevitabili involuzioni del nostro panorama architettonico.
Solo la lettura del processo storico considerato nella sua evoluzione attraverso i secoli può consegnarci un metodo compositivo efficace che sia applicabile a contesti diversi e che ha, nella sua produzione comunque diversificata, la valenza di non cercare soluzioni nel futuro ma di cercare i valori concreti e profondi rendendo attuale la lezione del passato.
La storia ci insegna un processo, noi dobbiamo proiettarlo in avanti attualizzandolo in un contesto, luogo fisico dove verrà posto in essere il confronto-scontro con le eredità del passato.
Questo può e deve essere il punto di partenza per la qualità dell’opera di architettura, qualsivoglia sia il suo fine ultimo e a qualsiasi livello, dall’edilizia popolare all’auditorium; non si può aspettare che la qualità diventi di nuovo obbligo per legge né che sia banalizzata e tradotta nei termini economici della qualità di dotazioni, come avviene tuttora nel mercato edilizio; il videocitofono, l'antenna satellitare, la vasca idromassaggio: questo ad oggi risulta essere il "valore aggiunto" dell’architettura.
Ma è indubbio che questo sia l’unico sentiero da seguire proprio perché la qualità paga, nel medio e lungo periodo, in termini di senso di appartenenza al luogo, di identificazione con la propria abitazione e il proprio contesto urbano; in termini di figuratività puntuale e diffusa, per restituire all’architettura il suo ruolo ambientale/urbano di connotazione della città.
Si salderebbe finalmente così quella frattura che dal Movimento Moderno in poi si è creata, nella struttura urbana, tra tessuto storico consolidato e periferia.
Si impone quindi con urgenza una vera e propria “questione morale” dell’architettura e degli architetti, un codice deontologico che esca dall’ipocrisia delle commissioni edilizie, e che crei invece una coscienza del fare architettura sin dal momento formativo, coinvolgendo le strutture universitarie su questi importanti temi.
Ritrovare, insegnare e coltivare una conoscenza che ribadisca quotidianamente che l’architettura oggi non è solo regola e scienza, ma soprattutto arte e coscienza.
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
MONETA Andrea |
2012-11-01 |
n. 62 Novembre 2012 |
L'architettura clonata
Andrea Moneta
Entrando nello specifico di cosa si sia costruito in questi ultimi anni a Roma per quanto riguarda l’edilizia residenziale, notiamo una impressionante sequenza di edifici-clone di se stessi, una situazione talmente imbarazzante che suggerisce ipotesi allarmanti: gli architetti hanno definitivamente abdicato alla loro professionalità massimizzando i profitti così come farebbe una società di capitali, a scapito di ciò per cui vengono pagati?
Questo significherebbe che l’operazione progettuale si sia ridotta al mero utilizzo della recente cultura del “copia e incolla”, dove pezzi di case o interi edifici vengono riprodotti – grazie al CAD – in una serie infinita di esemplari identici a se stessi o che si differenziano tuttalpiù per l'estensione planimetrica e il colore delle facciate.
Ponte di Nona, come altri comprensori in edificazione a Roma, è un vero e proprio campionario di questo tipo di architettura “clonata”, dove l’edificio può essere ripetuto in lotti diversi adattandolo alle dimensioni planimetriche ed altimetriche imposte dal planovolumetrico.
Le tipologie vengono così allungate, accorciate, stirate in altezza aggiungendo o togliendo piani alla bisogna; gli alloggi, con i loro schemi distributivi e impiantistici già pienamente rodati per non dire standardizzati, vengono “vestiti” da involucri edilizi spesso di sovietica ispirazione, realizzati in intonaco o, per conferire pregio e quindi vendibilità all’immobile, in cortina di laterizio.
Non solo, la stessa figura architettonica replicata, perfettamente uguale a se stessa, è spuntata qua e là con la velocità dei funghi, in tutta la periferia romana o, per essere precisi, in ogni cantiere dove abbia operato lo stesso costruttore e quindi, necessariamente, lo stesso architetto.
Guardando le pubblicità di questi edifici sulle riviste del settore immobiliare, è imbarazzante notare come l’utilizzo della stessa tipologia architettonica permetta addirittura l'uso della stessa fotografia per localizzazioni completamente diverse, così come appare per gli esempi di Ponte di Nona, Bufalotta e Malafede, ovvero sempre lo stesso – purtoppo pessimo – risultato architettonico.
Parlando di tipologia e consumo di territorio, se ci allontaniamo di poco dai margini della città ecco spuntare i quartieri suburbani realizzati con case a schiera e giardino, rigorosamente identici fra loro, luoghi strappati all'Agro Romano nei quali la piccola borghesia cerca di sfuggire ai costi delle zone centrali e al caos cittadino per rifugiarsi nella ex-natura, dimenticando che occorrono poi ore di traffico quotidiane per gli spostamenti casa-lavoro.
Cosa è successo nel frattempo? come si è potuto arrivare ad uno scempio così generalizzato da diventare caratterizzante l'immagine della periferia di una metropoli come Roma?
Certamente il fenomeno è potuto dilagare incontrastato grazie anche a quello che eufemisticamente nel Testo Unico dell'Edilizia è stato chiamato "lo snellimento della procedura per il rilascio della concessione edilizia" attuato, fra le altre cose, attraverso l’eliminazione della obbligatorietà del parere della Commissione edilizia, la cui sopravvivenza è stata quindi affidata all’autonoma scelta dei Comuni.
Inevitabilmente moltissimi comuni, piccoli e grandi, da nord a sud, hanno colto l'opportunità di deliberare direttamente l'abolizione della Commissione Edilizia, sbarazzandosi così di quello che possiamo considerare essere stato l'ultimo baluardo della qualità architettonica in Italia.
Un altro aspetto riguarda il ruolo degli imprenditori e la loro tendenza esasperata ad un contenimento dei costi di produzione tale da riflettersi inevitabilmente sia sul livello professionale dei progettisti che sull'impiego dell'architetto come semplice "impiegato"; questo può accadere perché il mercato del mattone dà ai costruttori la certezza per cui il prodotto edilizio si vende comunque, bello o brutto che sia, anche se replicato e clonato all'infinito per ogni dove.
Qui entra in gioco la coscienza del fare architettura: in un paese che grida vendetta per gli abusi edilizi che ricoprono buona parte del territorio, là dove geometri e ingegneri edili imperversano indisturbati nel ruolo di progettisti, se in Italia anche gli architetti abdicano al loro ruolo, quale strada potrà prendere l’architettura per cogliere la sfida della complessità? Il futuro sarà caratterizzato dall’ignavia edilizia?
Se come afferma Gregotti «non vi è più nulla che faccia discutere, né più alcuna regola da infrangere, semmai la ricostruzione di regole farebbe discutere», dopo il lungo periodo iconoclasta e a-storico del Movimento Moderno, della deriva storicista e post-moderna, va recuperato proprio quel rapporto critico col passato che implichi una metodologia applicativa a garanzia delle inevitabili involuzioni del nostro panorama architettonico.
Solo la lettura del processo storico considerato nella sua evoluzione attraverso i secoli può consegnarci un metodo compositivo efficace che sia applicabile a contesti diversi e che ha, nella sua produzione comunque diversificata, la valenza di non cercare soluzioni nel futuro ma di cercare i valori concreti e profondi rendendo attuale la lezione del passato.
La storia ci insegna un processo, noi dobbiamo proiettarlo in avanti attualizzandolo in un contesto, luogo fisico dove verrà posto in essere il confronto-scontro con le eredità del passato.
Questo può e deve essere il punto di partenza per la qualità dell’opera di architettura, qualsivoglia sia il suo fine ultimo e a qualsiasi livello, dall’edilizia popolare all’auditorium; non si può aspettare che la qualità diventi di nuovo obbligo per legge né che sia banalizzata e tradotta nei termini economici della qualità di dotazioni, come avviene tuttora nel mercato edilizio; il videocitofono, l'antenna satellitare, la vasca idromassaggio: questo ad oggi risulta essere il "valore aggiunto" dell’architettura.
Ma è indubbio che questo sia l’unico sentiero da seguire proprio perché la qualità paga, nel medio e lungo periodo, in termini di senso di appartenenza al luogo, di identificazione con la propria abitazione e il proprio contesto urbano; in termini di figuratività puntuale e diffusa, per restituire all’architettura il suo ruolo ambientale/urbano di connotazione della città.
Si salderebbe finalmente così quella frattura che dal Movimento Moderno in poi si è creata, nella struttura urbana, tra tessuto storico consolidato e periferia.
Si impone quindi con urgenza una vera e propria “questione morale” dell’architettura e degli architetti, un codice deontologico che esca dall’ipocrisia delle commissioni edilizie, e che crei invece una coscienza del fare architettura sin dal momento formativo, coinvolgendo le strutture universitarie su questi importanti temi.
Ritrovare, insegnare e coltivare una conoscenza che ribadisca quotidianamente che l’architettura oggi non è solo regola e scienza, ma soprattutto arte e coscienza.
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