Il Memoriale delle Fosse ardeatine
Tre riflessioni a confronto
Maria Teresa Cutrì, Luca Maricchiolo, Laura Colazza
Tre giovani studiosi mettono a confronto alcune riflessioni sul Mausoleo delle Fosse Ardeatine, realizzato a Roma tra il 1944 ed il 1949 su progetto di Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini e Uga De Plaisant, con le cancellate di Mirko Basaldella ed il gruppo scultoreo di Francesco Coccia.
Pensare Greco in un paesaggio romano
Maria Teresa Cutrì
Perché i percorsi che attraversano e circuiscono i luoghi deputati dell’eccidio e delle sepolture partono e si concludono circolarmente nel piazzale senza essere ad essi finalizzati?
Prologo
L’eco dell’urlo di Munch non si spegne. Dal cielo sono cadute le bombe, si è prodotta la distruzione. Da quello stesso cielo che circondava le architetture di Mendelsohn, ed era il riferimento per l’architettura di Le Corbusier. Ora solo una mano si alza e apre come un’offerta verso il cielo ridotto a solo una lama di luce tuttavia così potente da tagliare l’oscurità del silenzio della memoria.
A Roma cinque architetti intorno ai trent’anni, due scultori e una studentessa di architettura azzerano il linguaggio dell’architettura rendendolo più eloquente che mai progettando un grande cavo che accoglie il tempio/sepolcro e l’antro dell’eccidio fatto esplodere per nascondere l’assassinio di 335 persone. Lo fanno mentre sono ancora in corso i riconoscimenti delle persone trucidate e sepolte sotto tonnellate di terra e immondizia lì accumulata dai nazisti per confondere l’odore della carne umana, che si voleva restasse anonima, in putrefazione.
Come si fa a fare in quelle condizioni? Scrive Argan: «In una società che accetta il genocidio i campi di sterminio la bomba atomica non possono simultaneamente prodursi atti creativi». Il percorso dell’umanità pensata dal e nel Moderno si arresta in uno spazio tra il prima e il dopo. Sarà il Memoriale a indicare la strada, della volontà e necessità della ricostruzione.
1944-49. La funzione è ora funzione religiosa-rito. E come in ogni culto la funzione - rito racconta una trasformazione, anche attraverso l’uso di simboli e rende ripetibile un’esperienza.
Il luogo del massacro viene isolato e separato dal resto della campagna qui definita da cave, coltivazioni e memorie archeologiche e attraversata dalla stretta via Ardeatina che entra nel processo di definizione del progetto: un temenos, il ritaglio di un’area sacra, luogo del sacrificio e della celebrazione della divinità,della richiesta e dell’appagamento nella morte quale forma migliore di vita secondo il mito degli Argivi. È un filo sottile che lega il Memoriale delle Fosse al Mito, nella separazione tra umanità, eroi e divinità. Come nei santuari dell’antichità non si poteva nascere né morire, qui, in via eccezionale, si costruisce per ricordare le persone trucidate dalla follia nazista e per questo appartenenti non più a un’umanità normale ma eroica che tende al ruolo, non cercato, della divinità.
Nel temenos si costruisce un racconto che, attraverso la trasformazione continua delle immagini architettoniche, ha inizio,conclusione e re-inizio nello spazio a cielo aperto, cavo centrale e fondante della composizione, luogo concreto che contiene l’umanità, denso di partecipazione sociale ed emotiva e insieme vuoto sospeso dello spazio-tempo ordinario, meglio, luogo del tempo inteso come kairos … Tempo di crisi che significa «(…) possibilità di creare un’altra organizzazione (…) inventare una nuova esistenza » (M. Serres).
L’architettura costruisce uno spazio, totalmente artificiale, dove la finalità è l’articolazione circolare del percorso cerimoniale che avviene secondo disassamenti, prospettive angolari e modulazione della luce. Non si va in un luogo ma si compie un percorso seguendo il ritmo della tragedia, dal prologo all’esodo attraverso episodi e intervalli. (La via Ardeatina, percorso della memoria, si allarga a formare uno spazio di sosta e invito ad entrare al temenos oltrepassando un groviglio di segni intrecciati e arrovellati che danno accesso all’area sacra: nel grande cavo all’aperti si aprono i percorsi delle cave ricostruite, l’antro buio dove si consuma il delitto, un breve spazio all’aperto e l’accesso solo laterale al tempio - sepolcro, nel quale, ancora, il percorso è circolare intorno alle sepolture che affiorano dal terreno, di nuovo lo spazio aperto).
È un pensare greco in un paesaggio romano, disseminato di memorie - tesori, costruito da cave e rilievi improvvisi, le castelline di tufo che affiorano dalla terra e rispetto al quale la ricostruzione delle cave nel fare prospetto del temenos, nel percorso interno, e nel disegno delle strutture di consolidamento delle pareti e delle volte, cita le tombe rupestri e in dettaglio le celle funerarie scavate nelle pareti di tufo nelle tagliate etrusche.
La luce assume ora un ruolo decisivo, non più materia che accende i volumi ma tale da smaterializzare – attraverso la configurazione di una lama che separa il masso di copertura del Memoriale dallo scavo contenente le sepolture affioranti dal terreno – la costruzione del tempio - sepolcro che perde di fatto la connotazione tempio in quanto recinto costruito all’interno del temenos. Il masso galleggiante e le cave (pur ricostruite) accentuano una volontà di non costruito ordinario ma allusiva che ricorda una serie di azioni salvifiche svolte negli asclepeion dalla malattia al respingimento del male passando per uno stato iniziale allucinatorio e uno intermedio del sonno sacro dove (qui) la luce, come l’apparizione del dio nel sonno, squarcia l’oscurità, tiene lontana la distruzione, ripara.
Il tempio - sepolcro, posto in un luogo laterale e leggermente di sguincio, rispetto a chi accede al temenos, galleggia elevato su un rilievo artificiale, geometricamente definito e inclinato rispetto al piano di accesso e sosta pubblica per assistere al rito e ne interrompe la circolarità. L’inclinazione stabilisce l’assetto monumentale, separa le umanità e accentua l’impressione di scivolamento del masso, quasi un’esortazione, verso quell’umanità normale, contenuta nel cavo, che forse non conosce fino in fondo se stessa (Santuario di Apollo a Delfi). Il masso di copertura lavora su una ulteriore leggera inclinata esterna,oltre le correzioni ottiche dello spazio interno. Il rilievo, è trattato con una campitura piena (a prato) unico elemento di colore, impuro, di tutto il progetto.
Il gruppo scultoreo, in un angolo del temenos su un alto basamento, è segno territoriale visibile da molto lontano. Descrizione e monito: tre generazioni sono state annientate affinché non ci fosse ricordo.
Ma in altri termini, il Moderno tra il 1944-49 attraverso le Fosse Ardeatine costruisce l’architettura come sistema di relazioni. E il nostro contemporaneo caratterizzato dai sistemi a rete non stabilisce che ciò che è importante non sono tanto i nodi quanto le relazioni, i collegamenti - connessioni che si stabiliscono tra essi?
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Misura e consapevolezza nel monumento alle fosse ardeatine
Luca Maricchiolo
Come si coniuga la convivenza dialettica quali il naturalismo del luogo, la stereometria del sacrario, l'espressionismo delle cancellate e la descrittività del gruppo scultoreo?
La celebrazione è un tema spinoso per l'architettura, alternato fra le tentazioni alla drammaticità ostentata e alla retorica, che trova nel Monumento alle Fosse Ardeatine una matura capacità di sintesi fra la commemorazione e l'elaborazione storica, a dispetto del brevissimo lasso di tempo intercorso tra l'eccidio e la progettazione del mausoleo. Il portato teorico di cui si fa carico è quello di un passaggio storico delicato, di una cultura attonita per la distruzione cui ha portato il sistema industriale e progressista tanto sinceramente osannato nella prima metà del secolo, e pervasa dalla necessità di ricercare da zero un ruolo per l'architettura.
Il dolore messo in scena dal monumento non è né straziante né violento, ma misurato, maturo, denso di consapevolezza storica. Così le scelte progettuali, che tendono ad un sistema compiuto di suggestioni, manifestano la misura riconosciuta in una tragicità già inscritta nella memoria: la straordinaria forza di cui il progetto è espressione è la riflessione profonda che si traghetta dal piano dell'emotività a quello dell'intelletto.
Il piano sequenza che si offre all'ingresso del piazzale lascia alle spalle la confusione ed il grido sordo espressi dalle cancellate, relegando all'esterno la dimensione emotiva per spostare l'attenzione verso la riflessione ragionata sulla gravità, espressa dal gruppo scultoreo e dal sacrario, salvo concedersi un'eccezione dentro la grotta dell'eccidio: il temenos è un luogo di straordinaria immanenza, celebra la morte in senso intellettuale, non emotivo, religioso o trascendente, in cui ogni scelta espressiva e potenzialmente dirompente sta in equilibrio complessivo e viene moderata dagli altri elementi della composizione.
Il cambio di dimensione e il gigantismo degli elementi è misurato alla spazialità del luogo, è eloquente e non spaventoso. Il gruppo scultoreo non è incombente, misura lo spazio e catalizza l'attenzione esprimendo il significato del sito: s suggerisce la costrizione dei deportati attraverso il dialogo fra la descrittività delle tre figure di persone normali prive di tensione eroica, e il panneggio abbozzato che li avvolge e li lega insieme in un unico blocco. La debole presenza chiaroscurale, la staticità espressa dall'assenza di linee direzionali, la verticale come unica linea forza presente, accentuano il radicamento al suolo e il peso delle figure: i deportati stanno, non esprimono volontà, né dramma, piuttosto rassegnazione, sono illogicamente fermi in un atto allusivo dell'insensatezza di ciò che sta per accadergli. Le figure orientano verso i luoghi dell'eccidio e della sepoltura ma esprimono senza parlare: la forma è sintetica, sfaccettata, dura, frammenta su di sé l'atmosfera senza fenderla, in una dinamicità spaziale che appartiene al visitatore, non al monumento, e si confronta con i sistemi formali del masso e della natura.
La scala del gruppo scultoreo gioca con lo straniamento del sacrario, che si manifesta in una duplice dimensione concettuale: da copertura dello spazio sepolcrale caratterizzato dalla serialità delle tombe, appare in dimensione gigante come un'enorme pietra tombale che seppellisce il meccanicismo in sé, l'estetica industriale e funzionalista, e racconta attraverso un'architettura a-funzionale una storia finita nella tragedia della guerra. La sospensione diventa gravità attraverso il gioco delle proporzioni, manifestando il peso del fallimento mondiale che l'esaltazione del progresso si porta dietro; la stereometria è perentoria astrazione, ma è temperata dall'adagiamento organico nel profilo morbido della collina, da cui il segno dell'architettura si fa più silenzioso. La natura rimane tale, è il germe seppur debole di rinascita che tempera il peso del sacrario, e nelle grotte il progetto diventa conservazione, minimo indispensabile per preservare il luogo e la ferita della guerra. Tuttavia alla scala umana il sacrario è caldo, è una culla rassicurante che rispetto al monito esterno lascia spazio alla pietas, in un gioco di equilibri di tutto il sistema in grado di esprimere una sacralità laica di forza espressiva straordinaria, che nel silenzio della ragione colpisce più profondamente che nelle grida del pianto. Di fronte al vuoto lasciato dalla guerra al funzionalismo, il monumento indica nell'espressione di significati la strada per l'architettura.
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Foto di F. Ciresi |
Memoria ed oblio
Laura Colazza
Perché i percorsi che attraversano e circuiscono i luoghi deputati dell’eccidio e delle sepolture partono e si concludono circolarmente nel piazzale senza essere ad esso finalizzati?
Perché una fine non c’è, come non c’è un inizio.
Il percorso circolare rappresenta la narrazione di una storia, anzi della storia, il cui tempo è concepito in questo posto, per vari motivi ed attraverso i molteplici significati di cui questo concetto è latore, in modo circolare.
In primo luogo, forse, per via dell’impossibilità di demandare ad un percorso lineare il racconto di un’atrocità che sfugge a qualunque nesso logico di causa - effetto.
Il percorso circolare simboleggia proprio la direzione non univoca nella quale l’avanzare ed il progredire non coincidono, come accade nel tempo lineare,e allude invece, ad un concetto contrario: non si può solo avanzare, si può anche tornare indietro. Si corre sempre il rischio di tornare indietro, ed un monumento (memento) ha per definizione la funzione di memoria, di monito sulla ciclicità della storia umana. Il tempo ciclico però insieme all’eterna regressione contiene anche il senso contrario, cioè l’eterna evoluzione. Camminando in circolo si torna sempre indietro, è vero, ma si va anche sempre avanti.
Così come nel tempo ciclico, nel mausoleo delle Fosse Ardeatine i due aspetti coesistono e questa convivenza costituisce,secondo me, l’essenza ed il significato profondo di questo posto.
Questo luogo non è mai quel che appare, o meglio lo è ma è sempre nello stesso momento anche il suo contrario: è vita ed è morte, ed è un monumento grave, statico ed allo stesso tempo fortemente instabile ed in divenire.
Il segno più definitivo che possa essere scritto in questa vicenda, cioè una grande tomba, in realtà definitivo non lo è affatto.
Sulle nostre teste si erge sospesa, a sfidare la forza di gravità, l’imponente pietra tombale. L’innaturalità della sospensione ci racconta di una storia in divenire perché quello che stiamo guardando non può essere uno stato perenne in natura.
L’enorme blocco di pietra è per sempre un attimo, un fotogramma, una fase, un momento, un’istantanea. E se quello che osserviamo è il fotogramma del monumento congelato per sempre nel suo divenire, quale è questo istante:
È quello in cui si apre?
È quello in cui si chiude?
È la contraddizione che rende così forte questo luogo e così scioccante l’attraversarlo pensando che nel percorso circolare che è la storia e che è la vita, nella migliore delle ipotesi, se non si torna indietro si va avanti. Sapendo che si va avanti solo necessariamente, sempre, a patto di dimenticare, un po’, per vivere. Eppure una domenica pomeriggio di febbraio c’è un attimo, un solo attimo in cui incredibilmente la vita, il tempo, non progredisce né arretra,in quell’attimo sta. O forse ricorda.
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Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
CUTRÌ M.T., MARICCHIOLO L., COLAZZA L. |
2012-05-14 |
n. 56 Maggio 2012 |
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