Stazione Termini
Per una rilettura critica del progetto
Luca Montuori
La Stazione Termini è nota a molti, evoca quelle immagini dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, con le Fiat 1400 e 1100 parcheggiate sotto la pensilina con Jennifer Jones e Montgomery Clift che si baciano sulle banchine con De Sica dietro la telecamera. Quelle stesse immagini si sovrappongono alla Termini di oggi, con le oltre 500.000 persone che la attraversano ogni giorno, con la sua galleria di testa divenuta vero e proprio luogo pubblico in cui viaggiatori e passanti si mescolano come in una grande piazza del centro di Roma.
Fin dallo sviluppo dei trasporti ferroviari la stazione ha avuto un suo fascino inarrivabile, quello di un edificio che mette in comunicazione due mondi diversi, così eterogenei da sembrare inconciliabili. La stazione è per metà fabbrica e per metà palazzo e fin dalle sue origini rispecchia nella sua architettura questa duplicità insanabile. L’avvicinamento di questi due mondi segue un percorso da cui derivano innovazioni tipologiche e trasformazioni funzionali, man mano che il viaggio in ferrovia diviene un normale modo di spostarsi la distinzione tra le parti si assottiglia, i traffici e i flussi di pedoni e visitatori divengono fluidi e la stazione non separa più due mondi sempre meno diversi bensì li unisce.
La Stazione Termini, a differenza di molte stazioni storiche in Europa, non è semplicemente un edificio attraverso cui i viaggiatori entrano in città, non è solo una stazione. É un pezzo di città, è fatta di strade, percorsi, collegamenti, luoghi, piccoli monumenti, fontane, parti da visitare, parti da attraversare distrattamente; è fortemente inserita nella vita e nella struttura dei tessuti urbani circostanti. E come una parte di città si è sviluppata, con progetti diversi, contrasti, accelerazioni, sovrapposizioni. Sempre con uno sguardo al futuro, all’evoluzione delle tecnologie, al significato stesso che la ferrovia assume rispetto alla città nelle diverse epoche, e uno sguardo alla storia del luogo in cui si colloca.
Progetti grandiosi non realizzati, itinerari ferroviari alternativi e decisioni contrastate che addirittura avrebbero potuto portare viaggiatori e turisti a uscire dalla stazione di fronte al Colosseo ai piedi del Colle Oppio, o accanto alla Mole Adrianea ai Prati di Castello, o ancora nel bel mezzo del parco di Villa Borghese, solo per citare alcune delle diverse alternative che sembrarono possibili a tecnici, esperti e opinionisti vari.
L’attuale assetto della stazione è il frutto di pensieri e ripensamenti, realizzazioni e demolizioni, che, dalla fine dell’Ottocento, hanno riguardato non solo il fabbricato in sé ma l’assetto complessivo dell’area. Dal primo Fabbricato viaggiatori, ricavato nelle Botteghe di Farfa, piccoli edifici ad uso rurale che appartenevano alla tenuta della Villa Massimo, distrutta come vedremo per lasciar posto all’arrivo della ferrovia, ai giorni nostri diversi sono stati i protagonisti, molti i progetti che hanno visto alcuni tra le maggiori personalità della storia dell’architettura moderna confrontarsi, e scontrarsi.
Nell’insieme l’ingresso alla città eterna dalla ferrovia, così come oggi i passeggeri possono ammirarlo, rimane uno dei luoghi suggestivi e vitali della città.
La forza degli spazi rimane al di là delle apparentemente irrinunciabili necessità commerciali che hanno ultimamente trasformato l’atrio della stazione in uno spazio frammentato, in uno spot pubblicitario, una sorta di moderno ipermercato che ha cancellato la trasparenza delle vetrate, ha tradito il rapporto tra interno ed esterno accentuato dalla compressione spaziale della pensilina, il Dinosauro, che dai binari portava lo sguardo dei visitatori fino alle Terme di Diocleziano.
See, from the travertine / Face of the office block, the roof of the booking-hall
Sails out into the air beside the ruined / Servian Wall,
Echoing in its light / And cantilevered swoop of reinforced concrete
The broken profile of these stones, defeating / That defeat
For the New Railway Station in Rome è una poesia di Richard Wilbur, scrittore e poeta americano nato nel 1921, che all’epoca dell’inaugurazione era borsista Fulbright ospite dell’Accademia Americana a Roma. Fu scritta in un periodo in cui il viaggio in Europa, con diverse tappe nelle migliori località in cui avevano sede illustri fondazioni, era divenuto per gli scrittori e i poeti americani una rinnovata moda. Tuttavia, è facile immaginare come tra le descrizioni del Bel Paese primeggiassero odi alle bellezze classiche, rovine, segni della storia, o anche segni delle distruzioni belliche.
Ciò che di questi versi colpì maggiormente i critici del tempo, al di là della brillante capacità e tecnica poetica dell’autore (la raccolta Things of This World in cui era inserita valse a Wilbur il Pulitzer Prize, il National Book Award, e diversi altri premi), fu proprio la scelta della Stazione Termini quale oggetto di ispirazione e l’idea del contrasto tra la modernità rappresentata dall’idea stessa della stazione e dalla sua interpretazione architettonica, e la presenza delle Mura Serviane, al di sopra delle quali si libera lo “sbalzo in picchiata” del nuovo atrio biglietterie.
-
Sempre in quegli anni (1955), il critico americano G. E. Kidder Smith sottolineava nel suo libro Italy Builds come nella stazione di Roma il contrasto tra la modernità sorprendente e la presenza delle Mura Serviane riuscisse a ricordare al viaggiatore il ruolo culturale della città più affascinante del mondo. Alcuni anni più tardi nel suo The new architecture of Europe (1961) non esiterà a definirla “La più bella stazione d’Europa”.
E ancora C. L. V. Meeks, autore di The Railroad Station. An Architectural History (1956) non esita a definire la Stazione di Roma non solo la più bella stazione moderna ma più in generale uno dei più interessanti edifici moderni.
Non bisogna rimanere certo stupiti del successo di critica ottenuto dal progetto della Stazione Termini all’estero, in un momento in cui l’Italia era al centro del dibattito architettonico internazionale e la ricostruzione procedeva ricca di fermento culturale e di confronto tra i diversi protagonisti.
Piuttosto è da sottolineare come il progetto del nuovo fronte della Stazione Termini invece non riuscì ad affermarsi in maniera decisa nell’ambito della storiografia e della critica italiana.
Angiolo Mazzoni. Un eroe eclettico
Prima della costruzione del nuovo fabbricato viaggiatori la storia è ricca di progetti, scelte avventate e dubbie fino a quando sulle ali dell'emergenza si decise di affidare la realizzazione della nuova stazione, sostituendo quella del 1874, ad Angiolo Mazzoni. “Gli eventi precipitano, il traffico seguita ad aumentare, la conquista dell’Etiopia dà all’Italia l’Impero, l’Esposizione Mondiale si avvicina, non è più possibile procrastinare una sistemazione degli impianti ferroviari, per cui il Duce indica la soluzione da prescegliere e ordina la pronta realizzazione dando il primo colpo di piccone il 16 febbraio 1938” (da un comunicato delle Ferrovie dello Stato, 1937).
Angiolo Mazzoni nel 1922 era divenuto Ispettore stabile della Divisione lavori delle FFSS, e successivamente nel 1924 con l’unificazione dei Ministeri di Poste e Telegrafi e Ferrovie, fu trasferito a Roma. Grazie a questo suo incarico progettò e realizzò una grandissima quantità di stazioni e di edifici postali proponendo soluzioni avanzate in campo tipologico e fortemente innovative sul piano del linguaggio.
Per la nuova stazione Termini, Mazzoni propose un impianto tipologico che prevedeva lo sviluppo delle due ali parallele ai binari opportunamente suddivise in diversi edifici autonomi, all’interno delle quali venivano inserite tutte le funzioni principali della stazione.
L’edificio di testa, arretrato (secondo le indicazioni del Piano Regolatore del 1931) per liberare l’aggere Serviano in tutta la sua lunghezza rimasta (185 metri), sarebbe dovuto rimanere privo di qualsiasi destinazione funzionale eccettuata quella rappresentativa e di passaggio dei viaggiatori quasi a voler lasciare in diretto collegamento il mondo della ferrovia e quello della città.
Il progetto definitivo del 1938 prevedeva la realizzazione di un grande colonnato monumentale che sostituiva quella che nelle prime ipotesi era una facciata vetrata di chiara ispirazione razionalista. La vetrata era sollevata da terra da una lunga e bassa pensilina di ingresso che nelle intenzioni del progettista avrebbe dovuto essere il contrappunto orizzontale dei Colli laziali che sarebbero divenuti il fondale di Piazza dei Cinquecento. La soluzione non incontrò il gradimento dei dirigenti dell’epoca che pretesero che il progetto fosse “artisticamente nella millenaria tradizione architettonica di Roma”. Dopotutto in quegli anni venivano inaugurate quasi contemporaneamente la nuova stazione di Milano Centrale (1931) e di Firenze Santa Maria Novella (1933), a testimoniare una certa divergenza di vedute sul ruolo del Moderno nella città.
Il tema della testata è particolarmente sentito da Mazzoni che si dedicò al progetto fin dal 1924 per arrivare poi nel 1937 allo sviluppo di quello che egli stesso definì “un concetto innovatore: l’uscita frontale per ottenere i minimi percorsi – rettilinei in una unica direzione – per tutti i viaggiatori in arrivo.
L’adozione di questo criterio rivoluzionario portò a un grande vantaggio funzionale: i minimi percorsi ai viaggiatori in partenza per raggiungere i treni. In netto contrasto con la apparenza la ubicazione dei locali per il pubblico nelle ali – e in specie quelli per le partenze lungo via Giolitti – li rese “centrali” e “comodi” in modo perfetto e altrimenti mai raggiungibile (1).
Le due ali contenevano i principali servizi di stazione ed erano collegate da un innovativo (per l’epoca) sistema di passaggi sotterraneo con tre diversi livelli interrati. Su Via Marsala i volumi si articolavano in tre parti principali su una lunghezza complessiva di oltre un chilometro che supera anche diversi dislivelli stradali. In questa parte erano dislocati i servizi postali e di dogana, la sala Reale (mai realizzata), i servizi bagagli in arrivo. Sul lato di Via Giolitti (all’interno della finalmente restaurata “ala mazzoniana”) si trovavano le biglietterie, il locale bagagli in partenza, e, al piano superiore il salone conferenze con l’elegante portico all’intorno di una fontana.
Piacentini (che aveva partecipato alla selezione del progetto di Michelucci per la stazione di Santa Maria Novella) nel 1939 commenta così il progetto:
“La sua architettura è chiara, schietta, larga: essa rivela francamente la funzione degli edifici e nello stesso tempo è nobilissima e grandiosa. La facciata principale è costituita da un unico colonnato gigantesco, binato, sormontato da un attico e completamente aperto; la stazione sarà separata dalla piazza solamente da una vetrata attraverso la quale sarà possibile la visione di tutto il movimento dei treni: spettacolo moderno, vivo, dinamico. Pur essendo saporitamente moderno, nella sua schietta essenzialità, il portico ci richiama la larghezza e la maestà delle grandi composizioni romane, come i grandi porticati delle basiliche e dei fori. I fianchi si iniziano tanto su Via Marsala che sul Viale Principe di Piemonte con una serie di archi comprendenti l'altezza di due piani e sormontati da un altro ordine di archi, la cui luce è metà di quella degli inferiori: questi ultimi sono tagliati da una pensilina. (…) In complesso l'architettura è basata sul funzionamento, com'è logico in una stazione, e segue passo passo le singole necessità, palesandole esternamente: ne sono scaturiti dei fianchi vari, movimentati, interessanti, gustosi, pur conservando un carattere unitario. Vero è che le funzioni che si compiono in una stazione non sono molto elevate nella scala dei valori spirituali e sotto questo punto di vista ci si dovrebbe attenere ad un'estrema semplicità. Aspre critiche sono state mosse infatti ad altre stazioni, giudicate eccessivamente monumentali; ma in questo caso l'edificio della stazione domina una vasta piazza centralissima, su cui sorgono altri monumenti di grande valore: è insomma uno degli elementi più importanti della città, e sarà continuamente sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo anche riflettere che la stazione è il primo edificio che si vede arrivando: quello che ci dà il benvenuto e che deve subito rivelarci il carattere della città in cui si giunge. É in una parola l'anticamera della città ed è giusto che, come l'anticamera dei palazzi antichi, sia fastosa e grandiosa. A conferire nell'insieme un aspetto particolare di signorilità contribuiranno assai i materiali impiegati, tutti nobilissimi. Le grandi colonne saranno in travertino romano; così pure i muri esterni saranno quasi ovunque rivestiti con lastre di travertino disposte a giunti continui. Le pensiline saranno rivestite in mosaico di vetro. Negli interni i marmi saranno usati con larghezza e possiamo anzi affermare che in tutti i particolari già studiati si nota la preoccupazione costante di attenersi alle migliori soluzioni, pur tenendo presenti le considerazioni economiche.” (2)
Alla fine della guerra erano stati iniziati alcuni lavori per le fondazioni del fabbricato frontale mentre erano stati approntati i materiali per la realizzazione di simulazioni al vero del portico di accesso e per la realizzazione di parte del progetto.
Tuttavia la soluzione di Mazzoni non sembrava adeguata sia funzionalmente alle esigenze della stazione sia dal punto di vista rappresentativo per ragioni di estetica e di retorica formale con il colonnato monumentale che avrebbe potuto competere con quello di San Pietro (come scrissero diversi quotidiani dell’epoca). Vista la delicatezza del tema il Ministero dei Trasporti nel 1947 decise di indire un concorso ”Per il progetto di Completamento del fabbricato viaggiatori della nuova Stazione di Roma Termini”.
Un concorso, tredici premiati e una vecchia polemica
“Il lato estetico del problema di Roma Termini è essenziale. Prevale su di esso quello funzionale. Sul funzionale quello economico.
Modificare il fabbricato viaggiatori di Roma Termini è imperdonabile ed ingiustificabile errore funzionale. Quello economico è tanto grande da risultare inconcepibile come si sia potuto giungere alla modifica della mia opera virtualmente compiuta per lavori eseguiti e forniture di materiale ed arredi pronte”.
Con queste parole, affidate alla rivista di architettura L’Urbe (cit.), Mazzoni commenta la decisione di non realizzare il suo progetto e di bandire un concorso per la realizzazione dell’edificio di testa della stazione.
Una commissione per lo studio dei criteri fondamentali per la sistemazione del fabbricato viaggiatori della stazione Termini aveva infatti individuato in maniera precisa e puntigliosa un insieme di rinnovate necessità cui la stazione avrebbe dovuto rispondere.
Il concorso inoltre prevedeva che il nuovo fabbricato dovesse funzionare in maniera completamente indipendente dagli edifici esistenti: “Tutte le parti già costruite (…) non dovranno subire alcuna modificazione, dato che la diversa sistemazione e utilizzazione dei locali, che si renderanno disponibili nelle due ali del fabbricato, sarà studiata a cura diretta dell’Amministrazione Ferroviaria”.
Il concorso rappresentava una delle prime grandi occasioni di confronto per la cultura architettonica italiana nel dopoguerra, eppure fu sostanzialmente disertato da molti architetti che invece avevano partecipato ai grandi concorsi del periodo precedente (3). Alla fine la Giuria si trovò a scegliere tra 40 progetti decidendo di premiarne tredici, tra cui molti ex-aequo, e tra questi due primi premi a due raggruppamenti cui fu affidato poi il compito di redigere il progetto definitivo. Il raggruppamento, con il progetto il cui motto era "Servio Tullio prende il treno", era composto da Leo Calini e Eugenio Montuori, il raggruppamento con il motto "Y=0,005X2" era composto da Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati, Achille Pintonello, Annibale Vitellozzi.
Visto che non esiste concorso di architettura che non scateni polemiche, in genere proporzionate all’importanza dell’opera, conviene soffermarsi sui diversi progetti premiati per approfondire alcune questioni da cui dipendono, a mio modo di vedere, alcuni equivoci.
Dopo l’assegnazione del premio sulle pagine di molte delle riviste di architettura dell’epoca comparvero commenti piuttosto negativi sugli esiti del concorso. In particolare sulla rivista Metron nel 1947 e di cui era co-direttore Mario Ridolfi con Bruno Zevi, viene pubblicato un articolo di Giuseppe Samonà che critica i progetti presentati indicando quale unica soluzione valida quella del gruppo Quaroni – Ridolfi (Mario Fiorentino che faceva parte del gruppo e che aveva anche realizzato da poco il Monumento per i martiri delle fosse Ardeatine viene sistematicamente dimenticato). “Con il suo articolo Samonà gettava le basi di una lettura critica che, consegnando la palma di vincitore morale del concorso alle immagini di un modello astratto e di alcuni disegni della grande copertura, avrebbe per lungo tempo offuscato nella letteratura architettonica italiana, la percezione della qualità del manufatto realizzato” (4).
Il giudizio di Samonà, evidentemente largamente condiviso, rimarrà impresso nella memoria di molti critici, portando a sviluppare una sottile diffidenza, tutta italiana come abbiamo visto, anche per il progetto realizzato. Tanto tale opinione si è radicata, soprattutto in ambienti accademici, che la stazione Termini non compare in molti volumi di storia dell’architettura pubblicati in Italia. Ancora nel 2000, sulle pagine di Abitare si può leggere un giudizio di Luca Molinari, che definisce Termini un’occasione mancata e scrive: "Sul concorso grava però la vittoria morale del progetto Quaroni, Ridolfi, Fiorentino segno evidente della nuova stagione neorealista romana, portatore di una visione spaziale inedita e relegato a un dubbio terzo posto. Il progetto finale, completato nel 1950 sembra comunque recepire molte delle suggestioni della versione quaroniana, soprattutto nella hall d'ingresso con una poderosa copertura ondulata in acciaio e vetro” (5). Un immaginario condito da buona “memoria di tanti racconti ascoltati e letti”, per continuare a citare lo stesso Molinari, sembra quindi bastare per giudicare la vicenda di Termini nel suo insieme.
Alcune delle ragioni per cui le osservazioni di Samonà siano state a lungo tramandate come opinione corrente da molti storici dell’architettura possono essere rintracciate in un altro scritto di Samonà stesso ancora sull’opera di Eugenio Montuori. In un saggio, pubblicato nel 1981, Samonà sottolinea le capacità di Montuori in quanto architetto attento alla ricerca espressiva “impegnandosi nelle cose concrete con situazioni reali della professione”. Poi aggiunge: “Montuori infatti non ha partecipato in maniera appariscente, né prima, né soprattutto dopo la guerra a quello svolgimento di studi urbanistici e sociali che hanno implicato dagli anni cinquanta una ricerca sia pur disordinata ma molto diffusa e in qualche modo profonda, dell’attività degli architetti verso i problemi creati in tutto il mondo dalle trasformazioni territoriali rivolte a nuovi approdi per l’urbanistica, coinvolgendola in una dialettica di cui sono testimonianze tanti congressi, convegni e pubblicazioni nella letteratura di questi anni” (6). Samonà sembra rimproverare dunque a Montuori una mancanza di attenzione alla riflessione teorica, e una distanza dai circoli accademici, in favore invece di una pratica professionale che guarda alla concretezza dell’architettura. In effetti Montuori, come molti altri, svolgeva la sua ricerca sull’architettura attraverso i progetti (oltre cinquecento di cui molti realizzati), attraverso una produzione vastissima di disegni, idee, schizzi, attraverso la sua passione per la pittura e l’arte che lo portò sempre a collaborare con artisti della scuola romana collocando nei suoi edifici opere di Cagli, Leoncillo, Capogrossi, mentre il fregio della stazione Termini fu commissionato ad Amerigo Tot. Per Montuori progettare non significava utilizzare regole scientifiche ma sviluppare il progetto a partire dalla propria sensibilità, dal proprio patrimonio di forme, di cultura figurativa, da tutto ciò che si è visto e si è letto o si è sperimentato: “Le esigenze funzionali del tema e le impressioni ricevute dall’ambiente decantano nella coscienza per alcuni giorni, anche se esse non vengono stimolate, finché si concretizzano in una immagine con le sue tre dimensioni e con i particolari essenziali, prendendo il suo aspetto da tante forme confluenti e preesistenti nella memoria” (7).
Su questo aspetto si sofferma anche Alessandra Muntoni in un altro recente saggio e riferendosi direttamente ancora alla polemica sul progetto per la stazione Termini scrive: “…quel progetto per Termini di Quaroni e Ridolfi, assieme all’esperienza del borgo La Martella, del quartiere Tiburtino a Roma e della chiesa a Francavilla a Mare, inaugurano la stagione del neorealismo che fa deviare l’architettura italiana dalla strada aperta dal Monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine e dalla testata della stazione Termini del gruppo Montuori. La modernità a questo punto si allontana dagli orizzonti della ricerca, per un tentativo di riallacciare una comunicatività popolare (…)”. L’autrice prosegue poi aggiungendo un altro elemento: “Non è la prima volta dopo tutto del resto, né sarà l’ultima, che la cultura italiana, alla ricerca di un suo ricominciamento che la allontani da un compromettente passato prossimo - in questo caso dal regime fascista -, commetta errori del genere” (8).
A questo punto, tornando a guardare al Concorso per la stazione senza pregiudizi, con una analisi di tutti i progetti premiati (molti dei quali dimenticati) si può notare come alcuni elementi fossero ricorrenti in diversi progetti e in particolare l’idea della grande piazza coperta, attribuita appunto al progetto Quaroni – Ridolfi, fosse sviluppata, con le dovute differenze, in molte delle soluzioni proposte. Il tema è affrontato forse proprio facendo eco al progetto Mazzoniano del grande atrio rappresentativo, o più semplicemente rispondendo alle richieste di un bando di concorso molto preciso e dettagliato.
La soluzione è presente nel progetto del gruppo di Luigi Cosenza che prevede una chiusura unitaria dello spazio dell’atrio con una copertura realizzata con “un’unica struttura metallica articolata a cerniera in corrispondenza dei pilastri di fondo dell’atrio biglietti” (dalla relazione del concorso). Come è presente nel progetto dell’arch. Saul Greco che propone un sistema costituito da due volte sottili che si aprono verso la città e verso la ferrovia: “La galleria di testa è coperta da un’ampia volta parabolica ed è chiusa con una vetrata continua verso il piazzale dei treni” (dalla relazione del concorso). Anche la soluzione proposta da Claudio Longo prevedeva una copertura unitaria, “Una galleria di testa, volume aperto verso il fascio di binari e chiuso verso la città, diaframma del cambiamento di moto” (dalla relazione del concorso). Le soluzioni di Rossi e Tonelli, di Morozzo della Rocca, e naturalmente del gruppo Ridolfi, proponevano un grande ambiente con copertura unitaria, così anche la soluzione di Calini e Montuori.
Coperture più o meno moderne, più o meno audaci strutturalmente, più o meno risolte esteticamente.
Certo la sezione della copertura proposta da Quaroni e Ridolfi, può ricordare l’andamento della copertura realizzata, e guardando solo a questa soluzione si può sposare la tesi il gruppo incaricato del progetto la abbia “assorbita”.
Tuttavia se invece guardiamo anche alla sezione del progetto di concorso del gruppo Calini e Montuori si può osservare come la struttura di copertura proposta, in cemento armato, sia formata da una doppia volta al di sopra dell’atrio, la cui altezza deriva dalla volontà di riprendere l’allineamento con l’Aggere Serviano.
Nei successivi approfondimenti, testimoniati dai pochi disegni di studio rimasti, questa struttura si assottiglia, divenendo un segno continuo che incornicia il profilo dell’Aggere Serviano per trasformarsi poi in quello che Sergio Musmeci definì “uno dei segni più chiari e decisi dell’architettura italiana del dopoguerra”.
Peraltro la soluzione finale ricorda anche quella adottata da Montuori in un concorso per la stazione di Sofia (un progetto del 1940 in collaborazione con Adalberto Libera), per la quale era prevista una grande copertura del salone delle partenze con una struttura a doppia pensilina.
-
Ma andiamo oltre. C’è un secondo dato che sembra sfuggire a molti: la dimensione e la scala della copertura, il rapporto tra la copertura e l’edificio per gli uffici retrostante. Nel progetto realizzato tale rapporto rimane simile a quello proposto dai gruppi vincitori ex-aequo, con la grande lama a chiudere la piazza e con la differenziazione tra atrio biglietterie e galleria di testa. Nel progetto Quaroni, Ridolfi, Fiorentino la copertura coinvolge tutto lo spazio a disposizione al di sotto di un unico elemento che collega la piazza ai binari ferroviari.
Tutta la stazione sarebbe dovuta rientrare nella galleria di testa, che avrebbe inglobato anche l’Aggere Serviano. Si sarebbe ottenuta una struttura di copertura larga circa 230 metri, alta come gli edifici esistenti sulla piazza e come l’edificio per gli uffici retrostante (circa 25 metri). Una struttura che i progettisti stessi descrivono scrivendo nella relazione del concorso: “l’ampiezza della fronte che, se può sembrare eccessiva per una stazione qualsiasi, risulta appena sufficiente in rapporto alle dimensioni dello spazio che la circonda e niente affatto esuberante con la “scala” della città”.
Il progetto realizzato e la vitalità dell’architettura italiana
“É nata a tradimento la nuova Stazione di Roma” da sempre nella mia memoria la stazione è associata a questa idea di smarrimento descritta da Leonardo Sinisgalli, l’ingegnere poeta, in un articolo del 1951 in cui si immaginano critici e opinionisti che “non sanno che pesci pigliare” o politici che “temono di averla fatta grossa”, con i progettisti che se la svignano di nascosto. Incorniciato in bella vista nella libreria dello studio di Eugenio Montuori, è sempre rimasto uno di quegli inizi travolgenti che ogni scrittore vorrebbe poter immaginato.
Nasce a tradimento perché innovativa, e frutto dell’irrequietudine italiana, come scrisse Gio Ponti ammiratore della “pensilina ad ondate” che si protende avanti nell’edificio, perché “le cose che facciamo sono le più meravigliose che mai siano state fatte”.
Dopotutto la Stazione è una delle ultime testimonianze delle potenzialità offerte da una città straordinaria come Roma all’architettura contemporanea.
Il fabbricato per i viaggiatori con il nuovo atrio e la nuova biglietteria completano il sistema di edifici che compongono l’intero corpo della stazione. Un sistema di stratificazioni di oltre tremila anni di storia che culminano nel nuovo atrio che incornicia l’Aggere Serviano, memoria di Termini, unico elemento che sia sopravvissuto ai tentativi di interramento durante la costruzione di Palazzo Massimo, come ai tentativi di demolizione con l’arrivo della ferrovia. Un “convitato di pietra” che oggi rimane isolato in un’aiuola dietro qualche gigantografia dell’eroe di turno della Nike che accoglie i viaggiatori con l’indifferenza di una città qualsiasi.
Dopo anni, polemiche e restauri, necessità di cambiamento passate per progetti che hanno fatto anche sorridere, Termini ha dimostrato di potersi rinnovare e di potersi confrontare con i cambiamenti che lo sviluppo della tecnica impone alla vita degli edifici. Certo non sono mancati progetti di ristrutturazione anche importanti e grandiosi come per esempio in occasione del Giubileo. Una trasformazione che ha portato ancor più la stazione a far parte della vita cittadina grazie anche alla realizzazione di nuovi servizi commerciali interrati e la riapertura dell’Ala Mazzoniana che per molti era uno strano impenetrabile edificio oggi rivelatosi ricco di spazi eccezionali come il ristorante con la grande cappa in cemento armato, ultimo riaperto in ordine di tempo, la vecchia biglietteria con le grandi volte in mattoni, il salone conferenze trasformato in spazio per esposizioni temporanee (il GATE), da cui si può godere dell'incredibile prospettiva degli archi lungo il lato esterno,.
Sembra sopportare tutto Termini, un po’ come un Dinosauro appunto, però uno di quelli erbivori e tranquilli. Perfino l’aggressione di bussolotti e chioschetti di varia natura che si perdono tra la folla della galleria di testa, o la crescita di veri e propri edifici che però sono in vetro e così sembrano giustificarsi mentre ogni tanto aggiungono un pezzo (come se il vetro non fosse un materiale dell’architettura).
Subito fuori dalle sue vetrate oltre gli eterogenei arredi, oltre la distesa di mezzi pubblici e la miriade di pensiline, oltre anche strani edifici mai usati e presto abbandonati, prosegue la vita della grande stazione, del luogo di passaggio: trasporti alternativi e autorganizzati verso paesi lontani, mercato di prodotti che arrivano attraverso strani vettori da quegli stessi paesi e che vengono scambiati e venduti sotto gli occhi distratti dei turisti o delle sculture del museo Romano che si trovano quasi abbandonate per caso nei giardini delle Terme. Le Terme di Diocleziano con cui la stazione silenziosamente si guarda a distanza in attesa di una sistemazione che sembra impossibile di quella piazza dei Cinquecento dove ancora rimane l’Aggere Serviano chiuso dietro la cancellata e dietro qualche ulivo piantato da un dirigente delle ferrovie dedito al decoro urbano.
Una congestione che testimonia la vitalità del luogo, un collage di pezzi che va dalla Roma antica al Rinascimento, dalla Roma Umbertina al Futurismo e alla Metafisica, dal Razionalismo al Junk Space inseguendo il filo di una vivacità e di una creatività che sono il segno vitale del coraggio dell’architettura.
Note
(1) A. Mazzoni, Il mio progetto per la Stazione Roma Termini, in "L’Urbe", X, Roma 1947, n 3, pp 27-35
(2) M. Piacentini, La nuova Stazione di Roma Imperiale, in "Architettura", XVIII, Roma 1939, pp. 72-85
(3) Il saggio più interessante e completo sul concorso per il fabbricato della Stazione Termini è comparso a firma di Marco Mulazzani su Casabella nel 2002: Marco Mulazzani, Eugenio Montuori, un’architettura felice e irrequieta, in "Casabella" LXV, 2001-2002, n. 695-696, pp. 88-101.
(4) Marco Mulazzani, cit.
(5) Luca Molinari, Stazione Termini rinnovata, in "Abitare", n. 408, 2001, pp. 86-95
(6) Giuseppe Samonà in Eugenio Montuori, Roma 1981, pp 3-4
(7) Eugenio Montuori, "Una maniera di progettare", in SCM. Vent’anni di attività dello Studio Tecnico Calini Montuori, 1945 – 1965, Roma 1965.
(8) Alessandra Muntoni, "Eugenio Montuori, spazio/forma/struttura/luce/forma/colore", in Eugenio Montuori, progetti disegni acquarelli olii. Roma 2007 pp. 13-36
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
MONTUORI Luca
|
2011-11-07 |
n. 50 Novembre 2011 |
Stazione Termini, per una rilettura critica del progetto
Luca Montuori
"For the New Railway Station in Rome"
La Stazione Termini è nota a molti, evoca quelle immagini dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, con le Fiat 1400 e 1100 parcheggiate sotto la pensilina con Jennifer Jones e Montgomery Clift che si baciano sulle banchine con De Sica dietro la telecamera. Quelle stesse immagini si sovrappongono alla Termini di oggi, con le oltre 500.000 persone che la attraversano ogni giorno, con la sua galleria di testa divenuta vero e proprio luogo pubblico in cui viaggiatori e passanti si mescolano come in una grande piazza del centro di Roma.
Fin dallo sviluppo dei trasporti ferroviari la stazione ha avuto un suo fascino inarrivabile, quello di un edificio che mette in comunicazione due mondi diversi, così eterogenei da sembrare inconciliabili. La stazione è per metà fabbrica e per metà palazzo e fin dalle sue origini rispecchia nella sua architettura questa duplicità insanabile. L’avvicinamento di questi due mondi segue un percorso da cui derivano innovazioni tipologiche e trasformazioni funzionali, man mano che il viaggio in ferrovia diviene un normale modo di spostarsi la distinzione tra le parti si assottiglia, i traffici e i flussi di pedoni e visitatori divengono fluidi e la stazione non separa più due mondi sempre meno diversi bensì li unisce.
La Stazione Termini, a differenza di molte stazioni storiche in Europa, non è semplicemente un edificio attraverso cui i viaggiatori entrano in città, non è solo una stazione. E’ un pezzo di città, è fatta di strade, percorsi, collegamenti, luoghi, piccoli monumenti, fontane, parti da visitare, parti da attraversare distrattamente; è fortemente inserita nella vita e nella struttura dei tessuti urbani circostanti. E come una parte di città si è sviluppata, con progetti diversi, contrasti, accelerazioni, sovrapposizioni. Sempre con uno sguardo al futuro, all’evoluzione delle tecnologie, al significato stesso che la ferrovia assume rispetto alla città nelle diverse epoche, e uno sguardo alla storia del luogo in cui si colloca.
Progetti grandiosi non realizzati, itinerari ferroviari alternativi e decisioni contrastate che addirittura avrebbero potuto portare viaggiatori e turisti a uscire dalla stazione di fronte al Colosseo ai piedi del colle Oppio, o accanto alla Mole Adriana ai Prati di Castello, o ancora nel bel mezzo del parco di villa Borghese, solo per citare alcune delle diverse alternative che sembrarono possibili a tecnici, esperti e opinionisti vari.
L’attuale assetto della stazione è il frutto di pensieri e ripensamenti, realizzazioni e demolizioni, che dalla fine dell’ottocento, hanno riguardato non solo il fabbricato in sé ma l’assetto complessivo dell’area. Dal primo Fabbricato viaggiatori, ricavato nelle Botteghe di Farfa, piccoli edifici ad uso rurale che appartenevano alla tenuta della Villa Massimo, distrutta come vedremo per lasciar posto all’arrivo della ferrovia, ai giorni nostri diversi sono stati i protagonisti, molti i progetti che hanno visto alcuni tra le maggiori personalità della storia dell’architettura moderna confrontarsi, e scontrarsi.
Nell’insieme l’ingresso alla città eterna dalla ferrovia, così come oggi i passeggeri possono ammirarlo, rimane uno dei luoghi suggestivi e vitali della città.
La forza degli spazi rimane al di là delle apparentemente irrinunciabili necessità commerciali che hanno ultimamente trasformato l’atrio della stazione in uno spazio frammentato, in uno spot pubblicitario, una sorta di moderno ipermercato che ha cancellato la trasparenza delle vetrate, ha tradito il rapporto tra interno ed esterno accentuato dalla compressione spaziale della pensilina, il Dinosauro, che dai binari portava lo sguardo dei visitatori fino alle Terme di Diocleziano.
See, from the travertine / Face of the office block, the roof of the booking-hall
Sails out into the air beside the ruined / Servian Wall,
Echoing in its light / And cantilevered swoop of reinforced concrete
The broken profile of these stones, defeating / That defeat
"For the New Railway Station in Rome" è una poesia di Richard Wilbur scrittore e poeta americano (nato nel 1921), che all’epoca dell’inaugurazione era borsista Fullbright ospite dell’Accademia Americana a Roma. Fu scritta in un periodo in cui il viaggio in Europa, con diverse tappe nelle migliori località in cui avevano sede illustri fondazioni, era divenuto per gli scrittori e i poeti americani una rinnovata moda. Tuttavia, è facile immaginare come tra le descrizioni del Bel Paese primeggiassero odi alle bellezze classiche, rovine, segni della storia, o anche segni delle distruzioni belliche.
Ciò che di questi versi colpì maggiormente i critici del tempo, al di là della brillante capacità e tecnica poetica dell’autore (la raccolta “Things of This World” in cui era inserita valse a R. Wilbur il Pulitzer Prize, il National Book Award, e diversi altri premi), fu proprio la scelta della Stazione Termini quale oggetto di ispirazione e l’idea del contrasto tra la modernità rappresentata dall’idea stessa della stazione e dalla sua interpretazione architettonica, e la presenza delle Mura Serviane, al di sopra delle quali si libera lo “sbalzo in picchiata” del nuovo atrio biglietterie.
Sempre in quegli anni (1955), il critico americano G. E. Kidder Smith sottolineava nel suo libro “Italy Builds” come nella stazione di Roma il contrasto tra la modernità sorprendente e la presenza delle Mura Serviane riuscisse a ricordare al viaggiatore il ruolo culturale della città più affascinante del mondo. Alcuni anni più tardi nel suo “The new architecture of Europe” (1961) non esiterà a definirla “La più bella stazione d’Europa”
E ancora C. L. V. Meeks autore di “The Railroad Station. An Architectural History” (1956) non esita a definire la Stazione di Roma non solo la più bella stazione moderna ma più in generale uno dei più interessanti edifici moderni.
Non bisogna rimanere certo stupiti del successo di critica ottenuto dal progetto della Stazione Termini all’estero, in un momento in cui l’Italia era al centro del dibattito architettonico internazionale e la ricostruzione procedeva ricca di fermento culturale e di confronto tra i diversi protagonisti.
Piuttosto è da sottolineare come il progetto del nuovo fronte della Stazione Termini invece non riuscì ad affermarsi in maniera decisa nell’ambito della storiografia e della critica italiana.
Angiolo Mazzoni. Un eroe eclettico
Prima della costruzione del nuovo fabbricato viaggiatori la storia è ricca di progetti, scelte aventate e dubbie fino a quando sulle ali dell'emergenza si decise di affidare la realizzazione della nuova stazione, sostituendo quella del 1874, ad Angiolo Mazzoni. “Gli eventi precipitano, il traffico seguita ad aumentare, la conquista dell’Etiopia dà all’Italia l’Impero, l’esposizione Mondiale si avvicina, non è più possibile procrastinare una sistemazione degli impianti ferroviari, per cui il Duce indica la soluzione da prescegliere e ordina la pronta realizzazione dando il primo colpo di piccone il 16 febbraio 1938” (da un comunicato delle Ferrovie dello Stato, 1937).
Angiolo Mazzoni nel 1922 era divenuto Ispettore stabile della Divisione lavori delle FS, e successivamente nel 1924 con l’unificazione dei Ministeri di Poste e Telegrafi e Ferrovie, fu trasferito a Roma. Grazie a questo suo incarico progettò e realizzò una grandissima quantità di stazioni e di edifici postali proponendo soluzioni avanzate in campo tipologico e fortemente innovative sul piano del linguaggio.
Per la nuova stazione Termini, Mazzoni propose un impianto tipologico che prevedeva lo sviluppo delle due ali parallele ai binari opportunamente suddivise in diversi edifici autonomi, all’interno delle quali venivano inserite tutte le funzioni principali della stazione.
L’edificio di testa, arretrato (secondo le indicazioni del Piano Regolatore del 1931) per liberare l’aggere Serviano in tutta la sua lunghezza rimasta (185 metri), sarebbe dovuto rimanere privo di qualsiasi destinazione funzionale eccettuata quella rappresentativa e di passaggio dei viaggiatori quasi a voler lasciare in diretto collegamento il mondo della ferrovia e quello della città.
Il progetto definitivo del 1938, prevedeva la realizzazione di un grande colonnato monumentale che sostituiva quella che nelle prime ipotesi era una facciata vetrata di chiara ispirazione razionalista. La vetrata era sollevata da terra da una lunga e bassa pensilina di ingresso che nelle intenzioni del progettista avrebbe dovuto essere il contrappunto orizzontale dei colli laziali che sarebbero divenuti il fondale di piazza dei cinquecento. La soluzione non incontrò il gradimento dei dirigenti dell’epoca che pretesero che il progetto fosse “artisticamente nella millenaria tradizione architettonica di Roma”. Dopotutto in quegli anni venivano inaugurate quasi contemporaneamente la nuova stazione di Milano Centrale (1931) e di Firenze Santa Maria Novella (1933), a testimoniare una certa divergenza di vedute sul ruolo del Moderno nella città.
Il tema della testata è particolarmente sentito da Mazzoni che si dedicò al progetto fin dal 1924 per arrivare poi nel 1937 allo sviluppo di quello che egli stesso definì “un concetto innovatore: l’uscita frontale per ottenere i minimi percorsi – rettilinei in una unica direzione – per tutti i viaggiatori in arrivo.
L’adozione di questo criterio rivoluzionario portò a un grande vantaggio funzionale: i minimi percorsi ai viaggiatori in partenza per raggiungere i treni. In netto contrasto con la apparenza la ubicazione dei locali per il pubblico nelle ali – e in specie quelli per le partenze lungo via Giolitti – li rese “centrali” e “comodi” in modo perfetto e altrimenti mai raggiungibile” (1).
Le due ali contenevano i principali servizi di stazione ed erano collegate da un innovativo (per l’epoca) sistema di passaggi sotterraneo con tre diversi livelli interrati. Su via Marsala i volumi si articolavano in tre parti principali su una lunghezza complessiva di oltre un chilometro che supera anche diversi dislivelli stradali. In questa parte erano dislocati i servizi postali e di dogana, la sala Reale (mai realizzata), i servizi bagagli in arrivo. Sul lato di via Giolitti (all’interno della finalmente restaurata “ala mazzoniana”) si trovavano le biglietterie, il locale bagagli in partenza, e, al piano superiore il salone conferenze con l’elegante portico all’intorno di una fontana.
Piacentini (che aveva partecipato alla selezione del progetto di Michelucci per la stazione di Santa Maria Novella) nel 1939 commenta così il progetto: “La sua architettura è chiara, schietta, larga: essa rivela francamente la funzione degli edifici e nello stesso tempo è nobilissima e grandiosa. La facciata principale è costituita da un unico colonnato gigantesco, binato, sormontato da un attico e completamente aperto; la stazione sarà separata dalla piazza solamente da una vetrata attraverso la quale sarà possibile la visione di tutto il movimento dei treni: spettacolo moderno, vivo, dinamico. Pur essendo saporitamente moderno, nella sua schietta essenzialità, il portico ci richiama la larghezza e la maestà delle grandi composizioni romane, come i grandi porticati delle basiliche e dei fori. I fianchi si iniziano tanto su Via Marsala che sul Viale Principe di Piemonte con una serie di archi comprendenti l'altezza di due piani e sormontati da un altro ordine di archi, la cui luce è metà di quella degli inferiori: questi ultimi sono tagliati da una pensilina. (…) In complesso l'architettura è basata sul funzionamento, com'è logico in una stazione, e segue passo passo le singole necessità, palesandole esternamente: ne sono scaturiti dei fianchi vari, movimentati, interessanti, gustosi, pur conservando un carattere unitario. Vero è che le funzioni che si compiono in una stazione non sono molto elevate nella scala dei valori spirituali e sotto questo punto di vista ci si dovrebbe attenere ad un'estrema semplicità. Aspre critiche sono state mosse infatti ad altre stazioni, giudicate eccessivamente monumentali; ma in questo caso l'edificio della stazione domina una vasta piazza centralissima, su cui sorgono altri monumenti di grande valore: è insomma uno degli elementi più importanti della città, e sarà continuamente sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo anche riflettere che la stazione è il primo edificio che si vede arrivando: quello che ci dà il benvenuto e che deve subito rivelarci il carattere della città in cui si giunge. E' in una parola l'anticamera della città ed è giusto che, come l'anticamera dei palazzi antichi, sia fastosa e grandiosa. A conferire nell'insieme un aspetto particolare di signorilità contribuiranno assai i materiali impiegati, tutti nobilissimi. Le grandi colonne saranno in travertino romano; così pure i muri esterni saranno quasi ovunque rivestiti con lastre di travertino disposte a giunti continui. Le pensiline saranno rivestite in mosaico di vetro. Negli interni i marmi saranno usati con larghezza e possiamo anzi affermare che in tutti i particolari già studiati si nota la preoccupazione costante di attenersi alle migliori soluzioni, pur tenendo presenti le considerazioni economiche.” (2)
Alla fine della guerra erano stati iniziati alcuni lavori per le fondazioni del fabbricato frontale mentre erano stati approntati i materiali per la realizzazione di simulazioni al vero del portico di accesso e per la realizzazione di parte del progetto.
Tuttavia la soluzione di Mazzoni non sembrava adeguata sia funzionalmente alle esigenze della stazione sia dal punto di vista rappresentativo per ragioni di estetica e di retorica formale con il colonnato monumentale che avrebbe potuto competere con quello di San Pietro (come scrissero diversi quotidiani dell’epoca). Vista la delicatezza del tema il Ministero dei Trasporti nel 1947 decise di indire un concorso ”Per il progetto di Completamento del fabbricato viaggiatori della nuova Stazione di Roma Termini”.
Un concorso, tredici premiati e una vecchia polemica
“Il lato estetico del problema di Roma Termini è essenziale. Prevale su di esso quello funzionale. Sul funzionale quello economico.
Modificare il fabbricato viaggiatori di Roma Termini è imperdonabile ed ingiustificabile errore funzionale. Quello economico è tanto grande da risultare inconcepibile come si sia potuto giungere alla modifica della mia opera virtualmente compiuta per lavori eseguiti e forniture di materiale ed arredi pronte”. Con queste parole, affidate alla rivista di architettura L’Urbe (cit.), Mazzoni commenta la decisione di non realizzare il suo progetto e di bandire un concorso per la realizzazione dell’edificio di testa della stazione.
Una commissione per lo studio dei criteri fondamentali per la sistemazione del fabbricato viaggiatori della stazione Termini aveva infatti individuato in maniera precisa e puntigliosa un insieme di rinnovate necessità cui la stazione avrebbe dovuto rispondere.
Il concorso inoltre prevedeva che il nuovo fabbricato dovesse funzionare in maniera completamente indipendente dagli edifici esistenti: “Tutte le parti già costruite (…) non dovranno subire alcuna modificazione, dato che la diversa sistemazione e utilizzazione dei locali, che si renderanno disponibili nelle due ali del fabbricato, sarà studiata a cura diretta dell’Amministrazione Ferroviaria”.
Il concorso rappresentava una delle prime grandi occasioni di confronto per la cultura architettonica italiana nel dopoguerra eppure fu sostanzialmente disertato da molti architetti che invece avevano partecipato ai grandi concorsi del periodo precedente (3). Alla fine la Giuria si trovò a scegliere tra 40 progetti decidendo di premiarne tredici, tra cui molti Ex Aequo, e tra questi due primi premi a due raggruppamenti cui fu affidato poi il compito di redigere il progetto definitivo. Il raggruppamento, con il progetto il cui motto era “Servio Tullio prende il treno”, era composto da Leo Calini e Eugenio Montuori, il raggruppamento con il motto Y=0,005X2” era composto da Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati, Achille Pintonello, Annibale Vitellozzi.
Visto che non esiste concorso di architettura che non scateni polemiche, in genere proporzionate all’importanza dell’opera, conviene soffermarsi sui diversi progetti premiati per approfondire alcune questioni da cui dipendono, a mio modo di vedere, alcuni equivoci.
Dopo l’assegnazione del premio sulle pagine di molte delle riviste di architettura dell’epoca comparvero commenti piuttosto negativi sugli esiti del concorso. In particolare sulla rivista Metron nel 1947 e di cui era co-direttore Mario Ridolfi con Bruno Zevi, viene pubblicato un articolo di Giuseppe Samonà che critica i progetti presentati indicando quale unica soluzione valida quella del gruppo Quaroni – Ridolfi (Mario Fiorentino che faceva parte del gruppo e che aveva anche realizzato da poco il Monumento per i martiri delle fosse Ardeatine viene sistematicamente dimenticato). “Con il suo articolo Samonà gettava le basi di una lettura critica che, consegnando la palma di vincitore morale del concorso alle immagini di un modello astratto e di alcuni disegni della grande copertura, avrebbe per lungo tempo offuscato nella letteratura architettonica italiana, la percezione della qualità del manufatto realizzato” (4).
Il giudizio di Samonà, evidentemente largamente condiviso, rimarrà impresso nella memoria di molti critici portando a sviluppare una sottile diffidenza, tutta italiana come abbiamo visto, anche per il progetto realizzato. Tanto tale opinione si è radicata, soprattutto in ambienti accademici, che la Stazione Termini non compare in molti volumi di Storia dell’Architettura pubblicati in Italia. Ancora nel 2000, sulle pagine di Abitare si può leggere un giudizio di Luca Molinari, che definisce Termini un’occasione mancata e scrive: “Sul concorso grava però la vittoria morale del progetto Quaroni, Ridolfi, Fiorentino segno evidente della nuova stagione neorealista romana, portatore di una visione spaziale inedita e relegato a un dubbio terzo posto.
Il progetto finale, completato nel 1950 sembra comunque recepire molte delle suggestioni della versione quaroniana, soprattutto nella hall d'ingresso con una poderosa copertura ondulata in acciaio e vetro” (5). Un immaginario condito da buona “memoria di tanti racconti ascoltati e letti”, per continuare a citare lo stesso Molinari, sembra quindi bastare per giudicare la vicenda di Termini nel suo insieme.
Alcune delle ragioni per cui le osservazioni di Samonà siano state a lungo tramandate come opinione corrente da molti storici dell’architettura possono essere rintracciate in un altro scritto di Samonà stesso ancora sull’opera di Eugenio Montuori. In un saggio, pubblicato nel 1981, Samonà sottolinea le capacità di Montuori in quanto architetto attento alla ricerca espressiva “impegnandosi nelle cose concrete con situazioni reali della professione”. Poi aggiunge: “Montuori infatti non ha partecipato in maniera appariscente, né prima, né soprattutto dopo la guerra a quello svolgimento di studi urbanistici e sociali che hanno implicato dagli anni cinquanta una ricerca sia pur disordinata ma molto diffusa e in qualche modo profonda, dell’attività degli architetti verso i problemi creati in tutto il mondo dalle trasformazioni territoriali rivolte a nuovi approdi per l’urbanistica, coinvolgendola in una dialettica di cui sono testimonianze tanti congressi, convegni e pubblicazioni nella letteratura di questi anni” (6). Samonà sembra rimproverare dunque a Montuori una mancanza di attenzione alla riflessione teorica, e una distanza dai circoli accademici, in favore invece di una pratica professionale che guarda alla concretezza dell’architettura. In effetti Montuori, come molti altri, svolgeva la sua ricerca sull’architettura attraverso i progetti (oltre cinquecento di cui molti realizzati), attraverso una produzione vastissima di disegni, idee, schizzi, attraverso la sua passione per la pittura e l’arte che lo portò sempre a collaborare con artisti della scuola romana collocando nei suoi edifici opere di Cagli, Leoncillo, Capogrossi mentre il fregio della stazione Termini fu commissionato ad Amerigo Tot. Per Montuori progettare non significava utilizzare regole scientifiche ma sviluppare il progetto a partire dalla propria sensibilità, dal proprio patrimonio di forme, di cultura figurativa, da tutto ciò che si è visto e si è letto o si è sperimentato: “Le esigenze funzionali del tema e le impressioni ricevute dall’ambiente decantano nella coscienza per alcuni giorni, anche se esse non vengono stimolate, finché si concretizzano in una immagine con le sue tre dimensioni e con i particolari essenziali, prendendo il suo aspetto da tante forme confluenti e preesistenti nella memoria” (7).
Su questo aspetto si sofferma anche Alessandra Muntoni in un altro recente saggio e riferendosi direttamente ancora alla polemica sul progetto per la stazione Termini scrive: “…quel progetto per Termini di Quaroni e Ridolfi, assieme all’esperienza del borgo La Martella, del quartiere Tiburtino a Roma e della chiesa a Francavilla a Mare, inaugurano la stagione del neorealismo che fa deviare l’architettura italiana dalla strada aperta dal Monumento ai Martiri delle Fosse Ardeatine e dalla testata della stazione Termini del gruppo Montuori. La modernità a questo punto si allontana dagli orizzonti della ricerca, per un tentativo di riallacciare una comunicatività popolare (…)”. L’autrice prosegue poi aggiungendo un altro elemento: “Non è la prima volta dopo tutto del resto, né sarà l’ultima, che la cultura italiana, alla ricerca di un suo ricominciamento che la allontani da un compromettente passato prossimo - in questo caso dal regime fascista -, commetta errori del genere” (8).
A questo punto, tornando a guardare al Concorso per la Stazione senza pregiudizi, con una analisi di tutti i progetti premiati (molti dei quali dimenticati) si può notare come alcuni elementi fossero ricorrenti in diversi progetti e in particolare l’idea della grande piazza coperta, attribuita appunto al progetto Quaroni – Ridolfi, fosse sviluppata, con le dovute differenze, in molte delle soluzioni proposte. Il tema è affrontato forse proprio facendo eco al progetto Mazzoniano del grande atrio rappresentativo, o più semplicemente rispondendo alle richieste di un bando di concorso molto preciso e dettagliato.
La soluzione è presente nel progetto del gruppo di Luigi Cosenza che prevede una chiusura unitaria dello spazio dell’atrio con una copertura realizzata con “un’unica struttura metallica articolata a cerniera in corrispondenza dei pilastri di fondo dell’atrio biglietti” (dalla relazione del concorso). Come è presente nel progetto dell’arch. Saul Greco che propone un sistema costituito da due volte sottili che sia aprono verso la città e verso la ferrovia: “La galleria di testa è coperta da un’ampia volta parabolica ed è chiusa con una vetrata continua verso il piazzale dei treni” (dalla relazione del concorso). Anche la soluzione proposta da Claudio Longo prevedeva una copertura unitaria, “Una galleria di testa, volume aperto verso il fascio di binari e chiuso verso la città, diaframma del cambiamento di moto” (dalla relazione del concorso). Le soluzioni di Rossi e Tonelli, di Morozzo della Rocca, e naturalmente del gruppo Ridolfi, proponevano un grande ambiente con copertura unitaria, così anche la soluzione di Calini e Montuori.
Coperture più o meno moderne, più o meno audaci strutturalmente, più o meno risolte esteticamente.
Certo la sezione della copertura proposta da Quaroni e Ridolfi, può ricordare l’andamento della copertura realizzata, e guardando solo a questa soluzione si può sposare la tesi il gruppo incaricato del progetto la abbia “assorbita”.
Tuttavia se invece guardiamo anche alla sezione del progetto di concorso del gruppo Calini e Montuori si può osservare come la struttura di copertura proposta, in cemento armato, sia formata da una doppia volta al di sopra dell’atrio, la cui altezza deriva dalla volontà di riprendere l’allineamento con l’Aggere Serviano.
Nei successivi approfondimenti, testimoniati dai pochi disegni di studio rimasti, questa struttura si assottiglia, divenendo un segno continuo che incornicia il profilo dell’Aggere Serviano per trasformarsi poi in quello che Sergio Musmeci definì “uno dei segni più chiari e decisi dell’architettura italiana del dopoguerra”.
Peraltro la soluzione finale ricorda anche quella adottata da Montuori in un concorso per la stazione di Sofia (un progetto del 1940 in collaborazione con Adalberto Libera), per la quale era prevista una grande copertura del salone delle partenze con una struttura a doppia pensilina.
Ma andiamo oltre. C’è un secondo dato che sembra sfuggire a molti: la dimensione e la scala della copertura, il rapporto tra la copertura e l’edificio per gli uffici retrostante. Nel progetto realizzato tale rapporto rimane simile a quello proposto dai gruppi vincitori ex aequo, con la grande lama a chiudere la piazza e con la differenziazione tra atrio biglietterie e galleria di testa. Nel progetto Quaroni, Ridolfi, Fiorentino la copertura coinvolge tutto lo spazio a disposizione al di sotto di un unico elemento che collega la piazza ai binari ferroviari.
Tutta la stazione sarebbe dovuta rientrare nella galleria di testa, che avrebbe inglobato anche l’Aggere Serviano. Si sarebbe ottenuta una struttura di copertura larga circa 230 metri, alta come gli edifici esistenti sulla piazza e come l’edificio per gli uffici retrostante (circa 25 metri). Una struttura che i progettisti stessi descrivono scrivendo nella relazione del concorso: “l’ampiezza della fronte che, se può sembrare eccessiva per una stazione qualsiasi, risulta appena sufficiente in rapporto alle dimensioni dello spazio che la circonda e niente affatto esuberante con la “scala” della città”.
Il progetto realizzato e la vitalità dell’architettura italiana
“E’ nata a tradimento la nuova Stazione di Roma” da sempre nella mia memoria la stazione è associata a questa idea di smarrimento descritta da Leonardo Sinisgalli, l’ingegnere poeta, in un articolo del 1951 in cui si immaginano critici e opinionisti che “non sanno che pesci pigliare” o politici che “temono di averla fatta grossa”, con i progettisti che se la svignano di nascosto. Incorniciato in bella vista nella libreria dello studio di Eugenio Montuori, è sempre rimasto uno di quegli inizi travolgenti che ogni scrittore vorrebbe poter immaginato.
Nasce a tradimento perché innovativa, e frutto dell’irrequietudine italiana, come scrisse Giò Ponti ammiratore della “pensilina ad ondate” che si protende avanti nell’edificio, perché “le cose che facciamo sono le più meravigliose che mai siano state fatte”.
Dopotutto la Stazione è una delle ultime testimonianze delle potenzialità offerte da una città straordinaria come Roma all’architettura contemporanea.
Il fabbricato per i viaggiatori con il nuovo atrio e la nuova biglietteria completano il sistema di edifici che compongono l’intero corpo della stazione. Un sistema di stratificazioni di oltre tremila anni di storia che culminano nel nuovo atrio che incornicia l’Aggere Serviano, memoria di Termini, unico elemento che sia sopravvissuto ai tentativi di interramento durante la costruzione della villa Massimo, come ai tentativi di demolizione con l’arrivo della ferrovia. Un “convitato di pietra” che oggi rimane isolato in un’aiola dietro qualche gigantografia dell’eroe di turno della Nike che accoglie i viaggiatori con l’indifferenza di una città qualsiasi.
Dopo anni, polemiche e restauri, necessità di cambiamento passate per progetti che hanno fatto anche sorridere, Termini ha dimostrato di potersi rinnovare e di potersi confrontare con i cambiamenti che lo sviluppo della tecnica impone alla vita degli edifici. Certo non sono mancati progetti di ristrutturazione anche importanti e grandiosi come per esempio in occasione del Giubileo. Una trasformazione che ha portato ancor più la stazione a far parte della vita cittadina grazie anche alla realizzazione di nuovi servizi commerciali interrati e la riapertura dell’Ala Mazzoniana che per molti era uno strano impenetrabile edificio oggi rivelatosi ricco di spazi eccezionali come il ristorante con la grande cappa in cemento armato, ultimo riaperto in ordine di tempo, la vecchia biglietteria con le grandi volte in mattoni, il salone conferenze trasformato in Museo per esposizioni temporanee (il GATE), da cui si può godere della incredibile prospettiva degli archi lungo il lato esterno,.
Sembra sopportare tutto Termini, un po’ come un Dinosauro appunto, però uno di quelli erbivori e tranquilli. Perfino l’aggressione di bussolotti e chioschetti di varia natura che si perdono tra la folla della galleria di testa, o la crescita di veri e propri edifici che però sono in vetro e così sembrano giustificarsi mentre ogni tanto aggiungono un pezzo (come se il vetro non fosse un materiale dell’architettura).
Subito fuori dalle sue vetrate oltre gli eterogenei arredi, oltre la distesa di mezzi pubblici e la miriade di pensiline, oltre anche strani edifici mai usati e presto abbandonati, prosegue la vita della grande stazione, del luogo di passaggio: trasporti alternativi e autorganizzati verso paesi lontani, mercato di prodotti che arrivano attraverso strani vettori da quegli stessi paesi e che vengono scambiati e venduti sotto gli occhi distratti dei turisti o delle sculture del museo Romano che si trovano quasi abbandonate per caso nei giardini delle Terme. Le Terme di Diocleziano con cui la stazione silenziosamente si guarda a distanza in attesa di una sistemazione che sembra impossibile di quella piazza dei Cinquecento dove ancora rimane l’Aggere Serviano chiuso dietro la cancellata e dietro qualche ulivo piantato da un dirigente delle ferrovie dedito al decoro urbano.
Una congestione che testimonia la vitalità del luogo, un collage di pezzi che va dalla Roma antica al Rinascimento, dalla Roma Umbertina al Futurismo e alla Metafisica, dal Razionalismo al Junk Space inseguendo il filo di una vivacità e di una creatività che sono il segno vitale del coraggio dell’architettura.
Note
(1) A. Mazzoni Il mio progetto per la Stazione Roma Termini, in “l’Urbe“, X, Roma 1947, n 3, pp 27-35
(2) M. Piacentini, La nuova Stazione di Roma Imperiale, in "Architettura", XVIII, Roma 1939, pp. 72-85
(3) Il saggio più interessante e completo sul concorso per il fabbricato della Stazione Termini è comparso a firma di Marco Mulazzani su Casabella nel 2002: Marco Mulazzani, Eugenio Montuori, un’architettura felice e irrequieta, in Casabella LXV, 2001-2002, n. 695-696, pp. 88-101.
(4) Marco Mulazzani, cit
(5) Luca Molinari, Stazione Termini rinnovata, in Abitare, n. 408, 2001, pp. 86-95
(6) Giuseppe Samonà in Eugenio Montuori, Roma 1981, pp 3-4
(7) Eugenio Montuori, Una maniera di progettare, in “SCM. Vent’anni di attività dello Studio Tecnico Calini Montuori, 1945 – 1965”, Roma 1965.
(8) Alessandra Muntoni, ”Eugenio Montuori, spazio/forma/struttura/luce/forma/colore, in “Eugenio Montuori, progetti disegni acquarelli olii”. Roma 2007 pp. 13-36
|