Il segno nella città
Il Jewish Museum a Berlino
Valeria Scavone
A Berlino, mutevole città, esempio di efficienza, di qualità della vita, il museo ebraico di Daniel Libeskind è un contenitore che è già contenuto: non è solo la collezione esposta in ricordo del drammatico tema dell’Olocausto a colpire, ma l’opera architettonica è già in sé memoria e dramma.
Il segno
L’affermarsi della visione satellitare - alla portata dei più - ha cambiato il modo di progettare/percepire le architetture, le città, il paesaggio urbano; è in questo senso che si può valutare appieno la forza del segno del museo ebraico nella città. Questo tormentato segno, uno zig zag, infatti, nasce dall’intersezione sulla mappa di Berlino dei luoghi dove lavoravano intellettuali ebrei. L’aver connesso questi punti della città rimanda, come dice lo stesso Libeskind, ad un “costellazione urbana e culturale della Storia Universale”.
Con la sua teatrale contorsione di volumi, con i suoi spigoli taglienti, infatti, l’edificio diviene come segno, monito per le generazioni future.
Inaugurato nel 2001, il museo berlinese è stato spesso al centro di una polemica per il fatto che “non può esporre che se stesso”. Studiosi di comunicazione affermano che negli ultimi quindici anni l’architettura è cambiata, è metafora di nuovi valori, e sembra rispondere anche esigenze di comunicazione, pur continuando permanere gli attributi precedenti: rappresentazione e funzione.
Il valore dell’architettura di oggi, però, non può essere più solo quello della sua funzionalità.
Gli “oggetti di una cultura democratica”, sembrano sempre più orientati a raccontare alle persone il senso del loro stare al mondo, amplificando esperienze collettive e simboliche; gli individui sembrano essere chiamati da questa nuova architettura a un “confronto fecondo e molteplice” (F. Beigbeder, 2004).
In questo caso, mai scelta di un linguaggio architettonico fu più calzante: il Jewish Museum si inquadra nel decostruttivismo che, in reazione al razionalismo, mira a de-costruire, è una non-architettura che si avvolge con l'evidenza e la plasticità dei suoi volumi, un'architettura senza geometria, senza - cioè - la concezione classica della geometria.
L’effetto di rottura è ottenuto anche grazie all’uso della luce: decine di finestre lunghe e strette, feritoie oblique sono cosparse come cicatrici sull’involucro dell’edificio, rimandando all’interno una luce che accompagna il visitatore nel suo cammino, sollecitandolo a provare determinate sensazioni. Il percorso didattico comincia al buio, al piano interrato, dove il passaggio dalla luce naturale alla luce artificiale costituisce il luogo di smistamento dà accesso a tre percorsi che simboleggiano i diversi destini del popolo ebraico. Uno porta al giardino di E.T.A. Hoffmann, che simboleggia l'esilio, un altro alla Torre dell'Olocausto, il terzo indirizza alla scala che porta al racconto della storia del popolo ebraico.
Il giardino, dalla forma quadrata sottolineata da un alto muro in cemento armato, indica la condizione di prigionia cui gli ebrei in esilio furono costretti; il piano di calpestio è inclinato di pochi gradi per esprimere il disagio dell'esiliato; all’interno del recinto una selva di pilastri è coronata da alberi che rappresentano la speranza di un ritorno in patria.
Un altro percorso porta alla Torre dell’Olocausto, l’unico edificio del museo non utilizzato per le mostre. Si entra attraverso una porta d'acciaio spessa e pesante che immette in uno spazio trapezoidale, alto quasi trenta metri, completamente vuoto e buio; l’unica sorgente di luce è una piccola feritoia in un angolo del soffitto; le pareti e il pavimento sono in cemento armato e l’assenza di climatizzazione enfatizza il disagio.
Il terzo percorso conduce alla scala di accesso ai vari piani del museo: una scala rettilinea di pietra nera che si arrampica in un unico vano fino alle sale espositive disposte sui tre piani dell’edificio. Lo stretto e alto vano della scala è perforato da un intrico di travi di diverse dimensioni e disposte diagonalmente che drammatizzano lo spazio. Ogni dettaglio è studiato per provocare la sensazione di instabilità, di “fastidio”; i corrimano frammentati; le finestre proseguono - con i loro tagli - sui soffitti e sui pavimenti degli ambienti; l’intersezione di questo intrigo di linee e superfici vetrate fa si che grandi porzioni di cemento rimangano sospese, galleggianti nel vuoto in un equilibrio precario.
Le collezioni permanenti esposte ai diversi piani narrano la cultura ebraica, le tradizioni, i personaggi che hanno fatto la storia del mondo occidentale nei diversi campi, poesia, prosa, scienza, matematica, arte (pensiamo a Albert Einstein, Rosa Luxemburg, Felix Mendelsson, Marc Chagall, Billy Wilder): gli ebrei come parte integrante della storia tedesca, membri creativi e importanti di questa società, non soltanto vittime.
Dopo aver trascorso diverse ore completamente avvolti in questo percorso narrativo architettonico guidati dai segni e dalla luce, l’uscita svela un'altra forza di questa architettura: il suo effetto sul paesaggio urbano.
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Il quartiere e la città
Questa volta - con un’ottica capovolta - si constati quanto l’architettura comunica all’esterno. Nel contesto urbano di Kreuzberg, a Friedrichstadt, il museo diviene, nelle ore serali, un landmark lynchano, un reale riferimento, una saetta argentata che denuncia la sua presenza in modo fortemente evocativo.
Berlino, città multietnica per antonomasia, ha in questo quartiere proprio un simbolo dell’integrazione: vi abitano turchi e iraniani e le strade pullulano di gallerie d'arte e caffè e, soprattutto dopo la caduta del muro, “è il cuore della nuova Europa” (D. Libeskind, 1998). Alla fine degli anni Ottanta il quartiere è stato al centro di un innovativo piano di rinnovamento urbanistico messo in atto dall’IBA (1979-1987) che prevedeva il recupero degli spazi a basso costo in accordo con gli abitanti del quartiere. Oggi, però, nonostante si leggano gli effetti di quella operazione, l’architettura di Libeskind non è riuscita ad avviare quel processo di risignificazione culturale, di una “nuova identità urbana” (M. Carta, 2004) che è stato – ad esempio - del Centre Pompidou a Parigi, un processo che ha contribuito alla riqualificazione dell’intero contesto. I tempi sono diversi, la città è diversa.
A Berlino, infatti, alla edificazione di nuove architetture non sembra corrispondere una nuova socialità; gli edifici audaci e innovativi, come questo, spesso non riescono a dialogare compiutamente con il contesto urbano, con una popolazione che – sempre più transitoria – sembra subire il disagio economico cittadino (J. Binsky, 2006). Quel sogno di “fare di Berlino una città che deve cercare e riuscire ad essere nuova” (B. Friel, 1993) sembra - a detta di molti - crollato.
Riflettendo
Per migliorare le condizioni di vita degli abitanti, ecco ritornare l’attualità del pensiero di Patrick Geddes: la città è un unico “organismo vivente” da trattare nel suo complesso con un approccio multidisciplinare comprendendo, cioè, anche temi quali l’economia, la sociologia, la geografia, il paesaggio. E sull’importanza del paesaggio urbano bisognerebbe più spesso ritornare con la guida di Cullen (1976): attraverso la vista si percepisce l’ambiente e si stimolano reazioni emotive legate a ricordi e emozioni: gli elementi della città devono essere disposti in modo tale da riuscire a provocare reazioni emotive, “una strada lunga e diritta influisce in maniera quasi nulla su noi, perchè l’immagine diventa presto monotona”. L’inserimento in un contesto urbano di un segno così forte, poiché la mente umana reagisce alla contraddizione, alla differenza, potrebbe far divenire Berlino “visibile”, quindi anche “vivibile” (Bobbio R., Gladi V., 2006).
La visibilità del Museo di Libeskind costituisce un buon punto di partenza per rendere anche questa parte della città vivibile, nel “tentativo di dare risposta alle esigenze formali e funzionali, di organizzazione fisica e di organizzazione funzionale”, facendo sì che le trasformazioni urbanistiche “avvengano secondo un disegno d’insieme” (Salzano E., 1998). L’armonia è probabilmente, infatti, ciò che non deve essere trascurato, è quel quid che può riuscire a trasformare un disegno urbano; quella stessa armonia che dovrebbe guidare qualunque intervento antropico sostenibile (Gambino R., 1997) individuando l’essenza, le qualità intrinseche, il genius loci del sistema urbano.
In conclusione, poichè la città è nata come luogo di relazione e di socializzazione (Mumford L., 1981) e poiché la vita materiale di molti cittadini dipende dalle città, dalla loro efficienza e dalla loro capacità di dare sicurezza sociale, per il cittadino che la abita non è importante - solo - la qualità del disegno urbano, ma anche le altre componenti che rendono una città vivibile, accogliente, condivisa, e quindi - anche - bella e armoniosa.
Bibliografia
F. Beigbeder, Euro 13.89, Feltrinelli, Milano 2004
J. Binsky, "Berlino. Germania", in: AA.VV., Città Architettura e Società. La Biennale di Venezia. 10 Mostra internazionale di Architettura, Marisilio, Verona 2006, pp. 203-211
R. Bobbio e V. Galdi, “Città accessibile, città accogliente”, Urbanistica Informazioni, n. 206, Marzo-Aprile, 2006, pp. 23-37
M. Carta, Next city: culture city, Meltemi, Roma 2004
G. Cullen, Il paesaggio urbano. Morfologia e progettazione, Calderini Editore, Bologna, 1976
D. Libeskind, Breaking ground, Sperling & Kupfer, Torino 1998
L. Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1981
L. Sacchi, Daniel Libeskind, Museo Ebraico, Berlino, Testo & Immagine, Torino 1998
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
SCAVONE Valeria |
2009-10-08 |
n. 25 Ottobre 2009 |
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